COMMON MAN AND RELIGIOUS SENSE IN GRAHAM GREENE.
Graham Greene (1904-1991) has been the embodiment of the anxieties of his tormented century and his adventurous life brought him to become a gifted eye witness of several basic facts (even secret facts) all around the world through many years of intense literary activity and numerous (sometimes dangerous) travels. In his books appear many inconvenient facts ignored by many official historians, fundamental, instead, to understand the second half of XXth century; they are reported in his witty inclination, giving amusement twisted with many points of reflection, not just about politics, but even about human and social conditions in the contemporary world. He created that particular atmosphere later called: “Greene-land” (we can’t forget he was an able scenarist and this will remain his main attitude throughout all his activity, and in this attitude too we can find his great modernity: probably the first literary author to be really sensitive towards cinema, in particular towards suspense and detective story).
Far from Virginia Woolf’s and James Joyce’s “paper symbols” he made common people become immortal characters who play their parts in a real world (with all its distortions connected), just as in a Dickens’ novel: characters taken from reality and thrown in tragic adventures, with the aim to stimulate in the readers the identification with the characters: common men, familiar figures who aren’t looking for adventure but they are obliged by the circumstances to accept their destiny. Furthermore, his consciousness of “impossible redemption” (as “the brandy priest” of “The Power and the Glory”) allowed him to socialize with sinners and rejected people, remaining an unexplained “phenomenon” for critics and leaving everything suspended in an indefinite atmosphere with no moral judgement, where nobody is completely good nor completely bad (in a deep Christian, but not orthodox, view of world and life, not as rigid critics would have expected from a catholic writer, so he has been frequently accused of shadiness). The common man is always persecuted by everybody, “born to need, not to protest” (M. F. Sciacca), he doesn’t care about politic acrostics as USA, URSS, NATO, SEATO, and many others (Mr Wormold, from “Our man in Havana”), but he has to be contained in this “structures” which want to influence his choices. The common man has to be contained in some of these “structures” cause others want to interpret him in their partial view and politicians want to use him for their utilitarian aims. Common man has to make a choice, without knowing anything, while he can’t hope someone understands his own tragedy or tries to be in his shoes, in people’s shoes. So he becomes an unaware “figura christi”, a martyr, with all his sins and his doubts, surrounded with hypocrisy, betrayal and fraud (which confirm the presence of a pervading Evil in the world), enclosed in a cruel world where he can’t express himself and he hasn’t chances to think to most important things of his life: family, love, friendship. What saves mature Greene’s novels by juvenile cynism is, in fact, a deep religious sense, “mirror” of his experience (“Pragmatism”). Talking about literature he said: “When religious sense vanished, sense of human action’s importance vanished too”. He wanted to pervade his novels and tales with the presence of that religious sense: “I feel sufferings, so I am”, or: “Innocence is just a form of madness” (architect Querry, from “A burnt-out case”). (*cfr “Vita di Don Chisciotte e Sancho Pancha” di M. de Unamuno).
The move of the shot from Europe (and other western countries in general) to Third World is another high Greene’s merit too.
IL SENSO RELIGIOSO NELLA FILOSOFIA.
Henri Bergson, soprattutto ricordato per i suoi studi sulla Memoria e sul Tempo, ebbe un’intuizione epocale, contenuta nella sua terza opera: “L’evoluzione creatrice”, quella dell’elan vital (cfr Schopenauer e Shaw), propulsore di un’energia che scaturisce dalla vis creativa della Mente umana, libera e autonoma, che con materia (“spirito depotenziato”) fornitale dal caso riesce a spronare con il suo solo “istinto” l’Evoluzione, a co-determinare (*cfr W. James, Pragmatismo, Dio-compagno non onnipotente, che ci chiama a collaborare al suo progetto, inteso in un universo pluralista, e che partecipa alle nostre azioni, se hanno valore, non abbandonandoci mai) in via puramente psichica il proprio sviluppo evolutivo a seconda delle necessità e quindi il Mondo stesso (cfr Lamarck), liberando il campo da buona parte delle dubbie e travisate teorie darwiniane e da quelle spenceriane, da un esasperato casualismo e da un esasperato finalismo. La religione è la reazione difensiva della natura contro il potere dissolvente dell’Intelligenza che altrimenti ci farebbe ripiegare nell’egoismo più assoluto, in vista dell’avvicinarsi della “possibilità che tutto diventi impossibile” (Heidegger) contro la quale solo l’amore universale può qualcosa. Nella stessa estasi mistica (in senso generale), Bergson, vede il punto di partenza di un’azione d’amore efficace nel mondo: l’uomo finito che prova l’esperienza mistica è immagine del Dio infinito, il suo amore per l’umanità immagine dell’Amore divino.
“In unoquoque virorum bonorum (quis deus incertum est) habitat deus” sostiene Seneca nelle sue Epistulae a Lucilio, tensione all’amore verso il prossimo e senso di responsabilità delle proprie azioni in Dio che ricompaiono, ad esempio, nella pur piuttosto pacata sua posizione sull’uso degli schiavi. Gli fa eco il quasi contemporaneo Epitteto: “Non saprai tollerare il tuo proprio fratello, che ha Giove per progenitore, ed è nato dai medesimi semi? Ma solo perché tu fosti messo in una cotale posizione più elevata, ti costituirai addirittura tiranno? Non ti ricorderai che sono della stessa razza, che sono i tuoi fratelli per natura, e discendono da Giove?”.
L. Wittgenstein, dopo l’esperienza del Tractatus, dice che credere in Dio significa credere che i fatti del mondo non son poi tutto e allora si evince che un profondo senso religioso era avvertito da lui forse più che da chiunque altro filosofo novecentesco. Soffermandosi sulla sua settima proposizione sembra di capire, infatti, che con il suo lavoro egli non volesse far altro che, per così dire, significare l’indicibile delimitando chiaramente il dicibile (cfr Discorso della Montagna di Gesù). Così altri grandi uomini di scienza del Novecento avvertirono un profondo senso di Dio sebbene in modi differenti, basti pensare ad Einstein (il quale porta l’esempio del bambino nella biblioteca, simile all’uomo saggio nell’universo di Dio) e a Godel (la sua prova ontologica), il quale è a lungo mosso dalla ricerca di un ordine logico a sostegno dell’universo e che crede nell’esistenza di un Dio platonico-leibniziano, insieme di tutte le qualità positive, Verità assoluta, per la quale vale il medesimo discorso del precedente teorema di incompletezza degli assiomi matematici, per cui si può partire da essi per provare qualcos’altro, ma la Verità non può dimostrare se stessa, non può che essere percepita come assolutamente vera in quanto assolutamente oggettiva. Un po’ come, direbbe un pragmatista, la percezione di un resistore posto sotto un tavolo e dunque invisibile ma non inesistente.
L’importanza della scelta morale, come senso religioso, riemerge pregnante nelle “Lezioni di filosofia morale” di H. Arendt. La domanda di fronte ai grandi drammi novecenteschi non è infatti tanto se X sia stato un ingranaggio grande o piccolo, ma perché lo sia diventato. L’avvertire la presenza di Dio non è dunque più assimilabile all’operazione psicologica dello “scarica-barile”, è proprio tutto l’opposto, è un senso di responsabilità superiore nei confronti dell’umanità tutta (cfr Kant).
M. de Unamuno (“En torno al casticismo”) non ha tanto a cuore un’Idea di Spagna quanto piuttosto il destino individuale di ogni spagnolo, di ogni uomo, la sua unicità. Egli guarda la “gente in carne e ossa” (cfr Tolstoj, secondo Wittgenstein), questa gente non è un fantasma intellettualistico, “è gente che lavora, pensa, soffre, e canta le sue canzoni su di un preciso pezzo di terra (cfr Simone Weil), sotto un preciso cielo e davanti a questo mare”. Da qui l’assalto contro quelle idee di Dio che vogliono sostituirsi agli slanci mistici dei fedeli, contro quanti, al di là delle tabelle e dei grafici economici e sociologici, non riescono a vedere le sofferenze di folle di esseri umani.
Per E. Mounnier la “persona” è “in ogni uomo una tensione fra le sue tre dimensioni spirituali: vocazione, incarnazione, comunione”. L’uomo ha da meditare sulla propria vocazione, sul suo posto e sui suoi doveri nella comunione universale. Ruolo fondamentale è giocato dal rapporto con l’altro: “amo, dunque l’essere è, e la vita merita di essere vissuta”, in un’esperienza che nasce dall’esperire il “tu”.
Per Mounnier, “ottimista tragico” (presa di coscienza della tragica realtà contemporanea, senza la rinuncia alla convinzione che la Verità sia comunque destinata al trionfo), il secolo XX ha la sua paura, ovvero che l’umanità tutta possa scomparire (armamenti nucleari, cfr “Nostro Agente all’Avana”), ma è una “piccola paura” in quanto non genera un’operosa attività di miglioramento per non presentarsi a mani vuote davanti a Dio, come invece accadde nel Mille per il timore dell’imminente fine del Mondo. Questa “piccola paura” deve trasformarsi in una “grande paura” positiva, ricca di iniziative cariche di forza liberatrice.
L’ITALIA E I SUOI “UOMINI QUALUNQUE”.
Guglielmo Giannini (1891-1960), di madre irlandese e padre partenopeo, giornalista, commediografo, comico vivacissimo, esordì nel ’44 con il saggio storico-politologico “La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide”. Per Giannini, passato attraverso entrambe le guerre mondiali, è la guerra il male peggiore che i Capi infliggono all’umanità, “la Folla deve semplicemente rifiutarsi di farla”. Chi è “L’Uomo della strada” per Giannini? (*“L’Uomo Qualunque” che in seguito diventerà un giornale e pure un partito, passato come una meteora nello scenario politico italiano, grazie anche a tutti gli sforzi della DC per spazzare via le altre forze moderate con la celeberrima “legge truffa”, tanto avversata pure da Guareschi). “È l’uomo nel caffè, nel cinematografo, nella camera da letto, nella sala da pranzo, davanti allo sportello delle tasse: dovunque. Il suo diritto è indiscutibile, anche se minoranze prepotenti lo contestano e lo annullano, è un personaggio che si contrappone all’eroe, al capo, al re, al duce, al fuhrer, al conductor, allo Stalin”, egli dice: “che importa a me delle vostre beghe? Io voglio vivere liberamente senza essere coinvolto nelle vostre risse”.
Già nella “Folla” del ’44 Giannini si dice a favore di una forza politica che si ispiri ai principi della Carta Atlantica, ripudi la violenza, invochi il suffragio universale (candidatura della Penna Buscemi), l’indipendenza dei tre poteri dello Stato, auspichi la creazione di una Corte Costituzionale alla quale possa liberamente accedere qualsiasi cittadino, condanni ogni ingerenza dello Stato nella vita dei cittadini, in campo economico ed etico. Ben lungi quindi dallo squallido significato che oggi si è soliti conferire alla parola “qualunquista”.
Per Giannini, come per Unamuno e Mounnier, non esistono classi sociali ma soltanto individualità: “l’uomo è più o meno lo stesso a tutte le latitudini”, è l’appello che fa prima della tornata elettorale, “egli aspira alla pace, alla fratellanza, al riscatto degli umili e degli oppressi, alla liberazione dalla paura e dal bisogno, secondo l’insegnamento evangelico”. Alle nuove micidiali armi il “povero cristo” (cfr Guareschi) dovrebbe opporre l’equilibrio, la bontà, la religiosità, il cuore della grande maggioranza del mondo, “noi gli opporremo l’amore, noi gli opporremo la spiritualità”. Discorso che pare uscire dalle labbra del greeniano Mr Wormold.
L’ESPERIENZA UNGARETTIANA DELLA GUERRA.
Giuseppe Ungaretti (1888-1970) vive la guerra, stigmatizzata dal Giannini come il peggiore dei mali che i potenti infliggono agli uomini qualunque: “buttato vicino/a un compagno/massacrato/con la sua bocca/digrignata”. In “I fiumi”, da “L’allegria” (oltre che nella raccolta “Il dolore”), si avverte molto forte la tensione religiosa del poeta.. L’Io non ha più certezze concrete cui aggrapparsi (“Mi tengo a quest’albero mutilato”, v1), abbandonato (lui come l’albero stesso, puro tronco privato dei suoi rami) nella dolina carsica(=il vuoto): la condizione fragile e precaria, ove ogni istante può essere l’ultimo, è quella storica dei giovani mandati alla guerra ed è quella psicologica personale dell’Io; si noti già dai primi versi l’ampio uso di participi in funzione attributiva. Il poeta avverte il forte bisogno di una rinascita spirituale, di pulizia dalle sozzure della guerra crudele e disumana e il bagno con i compagni nell’Isonzo, in un momento di tregua, per lavarsi il corpo sudicio e infangato per la vita di trincea, viene trasfigurato e diventa un vero e proprio battesimo, un rito che lo ricongiunge al sacro: “mi sono disteso/in un’urna d’acqua” (vv9-10), un’eco dell’approdo dantesco alla spiaggia purgatoriale (che si avverte pure nei vv7-8, ove volge gli occhi al cielo, dopo tanti giorni rintanato in trincea, e guarda “il passaggio quieto delle nuvole sulla luna”). L’urgenza di abbandonarsi fiducioso al fiume ed esserne riplasmato (“mi levigava/come un sasso”, vv14-15), da citare l’eco degli studi frazeriani (che influenzarono pure Eliot) sulla divinità ancestrale dei corsi fluviali. Il poeta poi tira su le sue “quattr’ossa” (chi sono io? Ben poca cosa infondo), verso che esprime un senso di finitudine profondo, e anziché camminare sulle acque come Cristo, si rende conto di non essere altro che “un acrobata” che procede a tentoni sui sassi scivolosi. Infreddolito si accoccola ai suoi “panni/sudici di guerra” (vv22-23), la sua “seconda pelle”, per così dire, insozzata dalla guerra (infatti non dice: “sudici panni/di guerra”, ma proprio “sudici di guerra”), son tutto quello che gli resta e vi si accoccola come un bambino alla mamma e l’atto stesso di esporsi al sole, per asciugarsi, viene trasfigurato (sempre per l’intimo bisogno dell’Io di evadere, per il bisogno di altrove, di estasi mistica) e diventa rito sacro. In questa esperienza, pur così semplice, del bagno nel fiume, il poeta ritrova se stesso, “docile fibra/dell’universo” (vv30-31), passando in rassegna nella memoria le epoche della sua vita, rappresentate dai suoi fiumi: il Serchio, ove risiedono le radici della sua “gente campagnola”, il padre e la madre, il Nilo (egli era nativo appunto di Alessandria d’Egitto) “che mi ha visto/nascere e crescere/e ardere d’inconsapevolezza” (vv-53-55), ardere di quello slancio vitale irrazionale e illogico, spensierato e sognatore dei bambini, poi, infine, la Senna “torbida”, torbida come la città che attraversa, crocicchio di avanguardie, movimenti di vario genere, culture, lingue e genti d’ogni sorta, infinito pozzo di conoscenze: Parigi, dove Ungaretti ha studiato e trascorso la sua gioventù. In ognuno di questi fiumi vede trasparire un dominante sentimento di nostalgia per l’età dolce, dell’infanzia e della giovinezza, bruscamente interrotta dalla “notte” della guerra che lo costringe a tramutarsi in belva feroce (cfr Huizinga “Homo Ludens”, Montale “Primavera Hitleriana”). Un’enigmatica “corolla di tenebre” in chiusa, un fiore che misteriosamente sboccia di notte.
IL PROBLEMA AMBIENTALE, UN NUOVO RISCOPERTO SENSO RELIGIOSO PER AFFRONTARLO A VANTAGGIO DI TUTTI.
Diceva profeticamente Giovannino Guareschi, già negli anni ’50: il ragionamento dei burocrati nella nostra “rossa Italia miliardaria” è: “cosa c’importa se stiamo avvelenando l’aria, l’acqua e la terra? S’arrangino i nostri nipoti!”. Del resto il problema ambientale non è cosa recente, già ne parlava Plinio il Vecchio e fu pure probabilmente all’origine di molte epidemie del passato.
Intorno a noi avvertiamo attualmente senz’altro un grande bisogno di rivalutazione del nostro patrimonio ambientale, di ritorno alla natura, di salvaguardia dell’ambiente per evitare la definitiva compromissione della nostra stessa specie umana. Un forte bisogno di ripensare ogni cosa come legata a tutte le altre, da qui si eviterebbero gli effetti a catena prodotti dall’uomo, ridimensionamento dei limiti umani e del nostro senso di onnipotenza che ci porta a dimenticare che, non solo il petrolio, ma tutte le risorse ambientali sono esauribili (come diceva Geronimo, quando l’uomo bianco non avrà più che denaro, perché tutto il resto lo avrà esaurito, si accorgerà di non poterlo mangiare) e ogni nostra scelta ha un impatto e nasconde sempre costi e aspetti negativi che vanno attentamente valutati. Qui andrebbe ora indirizzato un senso religioso ritrovato.
La crescita rapidissima dell’umanità ci sta ponendo infatti di fronte a dilemmi ignoti e comporta un maggiore sfruttamento delle risorse ed indi una profonda impronta ecologica. Basti pensare agli usi plurimi dell’acqua, ove ogni utente dovrebbe ricevere il bene-acqua intatto e ritrasmetterlo tale, mentre ciò non avviene, e ritorna il discorso della responsabilità. Ad esempio, l’acqua in natura contiene numerose sostanze che la rendono non idonea per taluni impieghi. Una prima regola porterebbe ad un risparmio improntato sulla diversificazione degli usi finali, un secondo criterio potrebbe essere determinato dalle concentrazioni massime accettabili di inquinanti, ma chi fissa questi valori? (esempio caso anni’70 della trielina a New York e Milano). La bonifica dei vecchi siti industriali contaminati costituisce oggi una delle emergenze ambientali più gravi. Grave è anche il problema delle acque sotterranee, le quali, per la loro stabilità nel tempo e le loro condizioni di purezza, sono fonte principale di approvvigionamento per le grandi aree sviluppate. Esse sono soggette a tre tipi di inquinamento: di origine urbana (es. scarichi domestici), di origine agricola (es. percolamento di sostanze tossiche in falda), di origine industriale (es. immissioni di inquinanti da pozzi di scarico perdenti, es. Seveso, Lombardia, 1976). Altro grave problema riguardante l’acqua è quello delle dighe e della maggiore concentrazione generale di CO2 che modifica i valori di pH, la maggior acidità ha effetti distruttivi devastanti su molti organismi, specie nei mari nelle zone costiere ove la concentrazione è maggiore.
Altri problemi ambientali di grande attualità sono legati a:
I combustibili: carbone (Rivoluzione Industriale), petrolio, uranio.
L’atmosfera e i gas serra (che assorbono la radiazione infrarossa lontana e ne trattengono una buona percentuale che da l’effetto serra). I mutamenti climatici (arretramento generalizzato del livello delle nevi perenni e dei ghiacciai).
Lo smaltimento dei rifiuti (discariche di prima, seconda, terza categoria), cui si può far fronte con riduzione dei rifiuti, contenimento imballaggi, recupero e riuso (legge sulla raccolta differenziata), il biogas.
La devastazione delle foreste.
Il metano.