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Archive for luglio 2010

COMMON MAN AND RELIGIOUS SENSE IN GRAHAM GREENE.

Graham Greene (1904-1991) has been the embodiment of the anxieties of his tormented century and his adventurous life brought him to become a gifted eye witness of several basic facts (even secret facts) all around the world through many years of intense literary activity and numerous (sometimes dangerous) travels. In his books appear many inconvenient facts ignored by many official historians, fundamental, instead, to understand the second half of XXth century; they are reported in his witty inclination, giving amusement twisted with many points of reflection, not just about politics, but even about human and social conditions in the contemporary world. He created that particular atmosphere later called: “Greene-land” (we can’t forget he was an able scenarist and this will remain his main attitude throughout all his activity, and in this attitude too we can find his great modernity: probably the first literary author to be really sensitive towards cinema, in particular towards suspense and detective story).

Far from Virginia Woolf’s and James Joyce’s “paper symbols” he made common people become immortal characters who play their parts in a real world (with all its distortions connected), just as in a Dickens’ novel: characters taken from reality and thrown in tragic adventures, with the aim to stimulate in the readers the identification with the characters: common men, familiar figures who aren’t looking for adventure but they are obliged by the circumstances to accept their destiny. Furthermore, his consciousness of “impossible redemption” (as “the brandy priest” of “The Power and the Glory”) allowed him to socialize with sinners and rejected people, remaining an unexplained “phenomenon” for critics and leaving everything suspended in an indefinite atmosphere with no moral judgement, where nobody is completely good nor completely bad (in a deep Christian, but not orthodox, view of world and life, not as rigid critics would have expected from a catholic writer, so he has been frequently accused of shadiness). The common man is always persecuted by everybody, “born to need, not to protest” (M. F. Sciacca), he doesn’t care about politic acrostics as USA, URSS, NATO, SEATO, and many others (Mr Wormold, from “Our man in Havana”), but he has to be contained in this “structures” which want to influence his choices. The common man has to be contained in some of these “structures” cause others want to interpret him in their partial view and politicians want to use him for their utilitarian aims. Common man has to make a choice, without knowing anything, while he can’t hope someone understands his own tragedy or tries to be in his shoes, in people’s shoes. So he becomes an unaware “figura christi”, a martyr, with all his sins and his doubts, surrounded with hypocrisy, betrayal and fraud (which confirm the presence of a pervading Evil in the world), enclosed in a cruel world where he can’t express himself and he hasn’t chances to think to most important things of his life: family, love, friendship. What  saves mature Greene’s novels by juvenile cynism is, in fact, a deep religious sense, “mirror” of his experience (“Pragmatism”). Talking about literature he said: “When religious sense vanished, sense of human action’s importance vanished too”. He wanted to pervade his novels and tales with the presence of that religious sense: “I feel sufferings, so I am”, or: “Innocence is just a form of madness” (architect Querry, from “A burnt-out case”). (*cfr “Vita di Don Chisciotte e Sancho Pancha” di M. de Unamuno).

The move of the shot from Europe (and other western countries in general) to Third World is another high Greene’s merit too.

IL SENSO RELIGIOSO NELLA FILOSOFIA.

Henri Bergson, soprattutto ricordato per i suoi studi sulla Memoria e sul Tempo, ebbe un’intuizione epocale, contenuta nella sua terza opera: “L’evoluzione creatrice”, quella dell’elan vital (cfr Schopenauer e Shaw), propulsore di un’energia che scaturisce dalla vis creativa della Mente umana, libera e autonoma, che con materia (“spirito depotenziato”) fornitale dal caso riesce a spronare con il suo solo “istinto” l’Evoluzione, a co-determinare (*cfr W. James, Pragmatismo, Dio-compagno non onnipotente, che ci chiama a collaborare al suo progetto, inteso in un universo pluralista, e che partecipa alle nostre azioni, se hanno valore, non abbandonandoci mai) in via puramente psichica il proprio sviluppo evolutivo a seconda delle necessità e quindi il Mondo stesso (cfr Lamarck), liberando il campo da buona parte delle dubbie e travisate teorie darwiniane e da quelle spenceriane, da un esasperato casualismo e da un esasperato finalismo. La religione è la reazione difensiva della natura contro il potere dissolvente dell’Intelligenza che altrimenti ci farebbe ripiegare nell’egoismo più assoluto, in vista dell’avvicinarsi della “possibilità che tutto diventi impossibile” (Heidegger) contro la quale solo l’amore universale può qualcosa. Nella stessa estasi mistica (in senso generale), Bergson, vede il punto di partenza di un’azione d’amore efficace nel mondo: l’uomo finito che prova l’esperienza mistica è immagine del Dio infinito, il suo amore per l’umanità immagine dell’Amore divino.

“In unoquoque virorum bonorum (quis deus incertum est) habitat deus” sostiene Seneca nelle sue Epistulae a Lucilio, tensione all’amore verso il prossimo e senso di responsabilità delle proprie azioni in Dio che ricompaiono, ad esempio, nella pur piuttosto pacata sua posizione sull’uso degli schiavi. Gli fa eco il quasi contemporaneo Epitteto: “Non saprai tollerare il tuo proprio fratello, che ha Giove per progenitore, ed è nato dai medesimi semi? Ma solo perché tu fosti messo in una cotale posizione più elevata, ti costituirai addirittura tiranno? Non ti ricorderai che sono della stessa razza, che sono i tuoi fratelli per natura, e discendono da Giove?”.

L. Wittgenstein, dopo l’esperienza del Tractatus, dice che credere in Dio significa credere che i fatti del mondo non son poi tutto e allora si evince che un profondo senso religioso era avvertito da lui forse più che da chiunque altro filosofo novecentesco. Soffermandosi sulla sua settima proposizione sembra di capire, infatti, che con il suo lavoro egli non volesse far altro che, per così dire, significare l’indicibile delimitando chiaramente il dicibile (cfr Discorso della Montagna di Gesù). Così altri grandi uomini di scienza del Novecento avvertirono un profondo senso di Dio sebbene in modi differenti, basti pensare ad Einstein (il quale porta l’esempio del bambino nella biblioteca, simile all’uomo saggio nell’universo di Dio) e a Godel (la sua prova ontologica), il quale è a lungo mosso dalla ricerca di un ordine logico a sostegno dell’universo e che crede nell’esistenza di un Dio platonico-leibniziano, insieme di tutte le qualità positive, Verità assoluta, per la quale vale il medesimo discorso del precedente teorema di incompletezza degli assiomi matematici, per cui si può partire da essi per provare qualcos’altro, ma la Verità non può dimostrare se stessa, non può che essere percepita come assolutamente vera in quanto assolutamente oggettiva. Un po’ come, direbbe un pragmatista, la percezione di un resistore posto sotto un tavolo e dunque invisibile ma non inesistente.

L’importanza della scelta morale, come senso religioso, riemerge pregnante nelle “Lezioni di filosofia morale” di H. Arendt. La domanda di fronte ai grandi drammi novecenteschi non è infatti tanto se X sia stato un ingranaggio grande o piccolo, ma perché lo sia diventato. L’avvertire la presenza di Dio non è dunque più assimilabile all’operazione psicologica dello “scarica-barile”, è proprio tutto l’opposto, è un senso di responsabilità superiore nei confronti dell’umanità tutta (cfr Kant).

M. de Unamuno (“En torno al casticismo”) non ha tanto a cuore un’Idea di Spagna quanto piuttosto il destino individuale di ogni spagnolo, di ogni uomo, la sua unicità. Egli guarda la “gente in carne e ossa” (cfr Tolstoj, secondo Wittgenstein), questa gente non è un fantasma intellettualistico, “è gente che lavora, pensa, soffre, e canta le sue canzoni su di un preciso pezzo di terra (cfr Simone Weil), sotto un preciso cielo e davanti a questo mare”. Da qui l’assalto contro quelle idee di Dio che vogliono sostituirsi agli slanci mistici dei fedeli, contro quanti, al di là delle tabelle e dei grafici economici e sociologici, non riescono a vedere le sofferenze di folle di esseri umani.

Per E. Mounnier la “persona” è “in ogni uomo una tensione fra le sue tre dimensioni spirituali: vocazione, incarnazione, comunione”. L’uomo ha da meditare sulla propria vocazione, sul suo posto e sui suoi doveri nella comunione universale. Ruolo fondamentale è giocato dal rapporto con l’altro: “amo, dunque l’essere è, e la vita merita di essere vissuta”, in un’esperienza che nasce dall’esperire il “tu”.

Per Mounnier, “ottimista tragico” (presa di coscienza della tragica realtà contemporanea, senza la rinuncia alla convinzione che la Verità sia comunque destinata al trionfo), il secolo XX ha la sua paura, ovvero che l’umanità tutta possa scomparire (armamenti nucleari, cfr “Nostro Agente all’Avana”), ma è una “piccola paura” in quanto non genera un’operosa attività di miglioramento per non presentarsi a mani vuote davanti a Dio, come invece accadde nel Mille per il timore dell’imminente fine del Mondo. Questa “piccola paura” deve trasformarsi in una “grande paura” positiva, ricca di iniziative cariche di forza liberatrice.

L’ITALIA E I SUOI “UOMINI QUALUNQUE”.

Guglielmo Giannini (1891-1960), di madre irlandese e padre partenopeo, giornalista, commediografo, comico vivacissimo, esordì nel ’44 con il saggio storico-politologico “La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide”. Per Giannini, passato attraverso entrambe le guerre mondiali, è la guerra il male peggiore che i Capi infliggono all’umanità, “la Folla deve semplicemente rifiutarsi di farla”. Chi è “L’Uomo della strada” per Giannini? (*“L’Uomo Qualunque” che in seguito diventerà un giornale e pure un partito, passato come una meteora nello scenario politico italiano, grazie anche a tutti gli sforzi della DC per spazzare via le altre forze moderate con la celeberrima “legge truffa”, tanto avversata pure da Guareschi). “È l’uomo nel caffè, nel cinematografo, nella camera da letto, nella sala da pranzo, davanti allo sportello delle tasse: dovunque. Il suo diritto è indiscutibile, anche se minoranze prepotenti lo contestano e lo annullano, è un personaggio che si contrappone all’eroe, al capo, al re, al duce, al fuhrer, al conductor, allo Stalin”, egli dice: “che importa a me delle vostre beghe? Io voglio vivere liberamente senza essere coinvolto nelle vostre risse”.

Già nella “Folla” del ’44 Giannini si dice a favore di una forza politica che si ispiri ai principi della Carta Atlantica, ripudi la violenza, invochi il suffragio universale (candidatura della Penna Buscemi), l’indipendenza dei tre poteri dello Stato, auspichi la creazione di una Corte Costituzionale alla quale possa liberamente accedere qualsiasi cittadino, condanni ogni ingerenza dello Stato nella vita dei cittadini, in campo economico ed etico. Ben lungi quindi dallo squallido significato che oggi si è soliti conferire alla parola “qualunquista”.

Per Giannini, come per Unamuno e Mounnier, non esistono classi sociali ma soltanto individualità: “l’uomo è più o meno lo stesso a tutte le latitudini”, è l’appello che fa prima della tornata elettorale, “egli aspira alla pace, alla fratellanza, al riscatto degli umili e degli oppressi, alla liberazione dalla paura e dal bisogno, secondo l’insegnamento evangelico”. Alle nuove micidiali armi il “povero cristo” (cfr Guareschi) dovrebbe opporre l’equilibrio, la bontà, la religiosità, il cuore della grande maggioranza del mondo, “noi gli opporremo l’amore, noi gli opporremo la spiritualità”. Discorso che pare uscire dalle labbra del greeniano Mr Wormold.

L’ESPERIENZA UNGARETTIANA DELLA GUERRA.

Giuseppe Ungaretti (1888-1970) vive la guerra, stigmatizzata dal Giannini come il peggiore dei mali che i potenti infliggono agli uomini qualunque: “buttato vicino/a un compagno/massacrato/con la sua bocca/digrignata”. In “I fiumi”, da “L’allegria” (oltre che nella raccolta “Il dolore”), si avverte molto forte la tensione religiosa del poeta.. L’Io non ha più certezze concrete cui aggrapparsi (“Mi tengo a quest’albero mutilato”, v1), abbandonato (lui come l’albero stesso, puro tronco privato dei suoi rami) nella dolina carsica(=il vuoto): la condizione fragile e precaria, ove ogni istante può essere l’ultimo, è quella storica dei giovani mandati alla guerra ed è quella psicologica personale dell’Io; si noti già dai primi versi l’ampio uso di participi in funzione attributiva. Il poeta avverte il forte bisogno di una rinascita spirituale, di pulizia dalle sozzure della guerra crudele e disumana e il bagno con i compagni nell’Isonzo, in un momento di tregua, per lavarsi il corpo sudicio e infangato per la vita di trincea, viene trasfigurato e diventa un vero e proprio battesimo, un rito che lo ricongiunge al sacro: “mi sono disteso/in un’urna d’acqua” (vv9-10), un’eco dell’approdo dantesco alla spiaggia purgatoriale (che si avverte pure nei vv7-8, ove volge gli occhi al cielo, dopo tanti giorni rintanato in trincea, e guarda “il passaggio quieto delle nuvole sulla luna”). L’urgenza di abbandonarsi fiducioso al fiume ed esserne riplasmato (“mi levigava/come un sasso”, vv14-15), da citare l’eco degli studi frazeriani (che influenzarono pure Eliot) sulla divinità ancestrale dei corsi fluviali. Il poeta poi tira su le sue “quattr’ossa” (chi sono io? Ben poca cosa infondo), verso che esprime un senso di finitudine profondo, e anziché camminare sulle acque come Cristo, si rende conto di non essere altro che “un acrobata” che procede a tentoni sui sassi scivolosi. Infreddolito si accoccola ai suoi “panni/sudici di guerra” (vv22-23), la sua “seconda pelle”, per così dire, insozzata dalla guerra (infatti non dice: “sudici panni/di guerra”, ma proprio “sudici di guerra”), son tutto quello che gli resta e vi si accoccola come un bambino alla mamma e l’atto stesso di esporsi al sole, per asciugarsi, viene trasfigurato (sempre per l’intimo bisogno dell’Io di evadere, per il bisogno di altrove, di estasi mistica) e diventa rito sacro. In questa esperienza, pur così semplice, del bagno nel fiume, il poeta ritrova se stesso, “docile fibra/dell’universo” (vv30-31), passando in rassegna nella memoria le epoche della sua vita, rappresentate dai suoi fiumi: il Serchio, ove risiedono le radici della sua “gente campagnola”, il padre e la madre, il Nilo (egli era nativo appunto di Alessandria d’Egitto) “che mi ha visto/nascere e crescere/e ardere d’inconsapevolezza” (vv-53-55), ardere di quello slancio vitale irrazionale e illogico, spensierato e sognatore dei bambini, poi, infine, la Senna “torbida”, torbida come la città che attraversa, crocicchio di avanguardie, movimenti di vario genere, culture, lingue e genti d’ogni sorta, infinito pozzo di conoscenze: Parigi, dove Ungaretti ha studiato e trascorso la sua gioventù. In ognuno di questi fiumi vede trasparire un dominante sentimento di nostalgia per l’età dolce, dell’infanzia e della giovinezza, bruscamente interrotta dalla “notte” della guerra che lo costringe a tramutarsi in belva feroce (cfr Huizinga “Homo Ludens”, Montale “Primavera Hitleriana”). Un’enigmatica “corolla di tenebre” in chiusa, un fiore che misteriosamente sboccia di notte.

IL PROBLEMA AMBIENTALE, UN NUOVO RISCOPERTO SENSO RELIGIOSO PER AFFRONTARLO A VANTAGGIO DI TUTTI.

Diceva profeticamente Giovannino Guareschi, già negli anni ’50: il ragionamento dei burocrati nella nostra “rossa Italia miliardaria” è: “cosa c’importa se stiamo avvelenando l’aria, l’acqua e la terra? S’arrangino i nostri nipoti!”. Del resto il problema ambientale non è cosa recente, già ne parlava Plinio il Vecchio e fu pure probabilmente all’origine di molte epidemie del passato.

Intorno a noi avvertiamo attualmente senz’altro un grande bisogno di rivalutazione del nostro patrimonio ambientale, di ritorno alla natura, di salvaguardia dell’ambiente per evitare la definitiva compromissione della nostra stessa specie umana. Un forte bisogno di ripensare ogni cosa come legata a tutte le altre, da qui si eviterebbero gli effetti a catena prodotti dall’uomo, ridimensionamento dei limiti umani e del nostro senso di onnipotenza che ci porta a dimenticare che, non solo il petrolio, ma tutte le risorse ambientali sono esauribili (come diceva Geronimo, quando l’uomo bianco non avrà più che denaro, perché tutto il resto lo avrà esaurito, si accorgerà di non poterlo mangiare) e ogni nostra scelta ha un impatto e nasconde sempre costi e aspetti negativi che vanno attentamente valutati. Qui andrebbe ora indirizzato un senso religioso ritrovato.

La crescita rapidissima dell’umanità ci sta ponendo infatti di fronte a dilemmi ignoti e comporta un maggiore sfruttamento delle risorse ed indi una profonda impronta ecologica. Basti pensare agli usi plurimi dell’acqua, ove ogni utente dovrebbe ricevere il bene-acqua intatto e ritrasmetterlo tale, mentre ciò non avviene, e ritorna il discorso della responsabilità. Ad esempio, l’acqua in natura contiene numerose sostanze che la rendono non idonea per taluni impieghi. Una prima regola porterebbe ad un risparmio improntato sulla diversificazione degli usi finali, un secondo criterio potrebbe essere determinato dalle concentrazioni massime accettabili di inquinanti, ma chi fissa questi valori? (esempio caso anni’70 della trielina a New York e Milano). La bonifica dei vecchi siti industriali contaminati costituisce oggi una delle emergenze ambientali più gravi. Grave è anche il problema delle acque sotterranee, le quali, per la loro stabilità nel tempo e le loro condizioni di purezza, sono fonte principale di approvvigionamento per le grandi aree sviluppate. Esse sono soggette a tre tipi di inquinamento: di origine urbana (es. scarichi domestici), di origine agricola (es. percolamento di sostanze tossiche in falda), di origine industriale (es. immissioni di inquinanti da pozzi di scarico perdenti, es. Seveso, Lombardia, 1976). Altro grave problema riguardante l’acqua è quello delle dighe e della maggiore concentrazione generale di CO2 che modifica i valori di pH, la maggior acidità ha effetti distruttivi devastanti su molti organismi, specie nei mari nelle zone costiere ove la concentrazione è maggiore.

Altri problemi ambientali di grande attualità sono legati a:

I combustibili: carbone (Rivoluzione Industriale), petrolio, uranio.

L’atmosfera e i gas serra (che assorbono la radiazione infrarossa lontana e ne trattengono una buona percentuale che da l’effetto serra). I mutamenti climatici (arretramento generalizzato del livello delle nevi perenni e dei ghiacciai).

Lo smaltimento dei rifiuti (discariche di prima, seconda, terza categoria), cui si può far fronte con riduzione dei rifiuti, contenimento imballaggi, recupero e riuso (legge sulla raccolta differenziata), il biogas.

La devastazione delle foreste.

Il metano.

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Giulio ed io, eravamo partiti dalle parti del Kilimangiaro per raggiungere, prima o poi, il lago Iteshi-Teshi, nella ex Rhodesia del Nord, con il catorcio che avevamo comprato in un villaggio sul confine keniota, da un vecchio inglese. Ero sempre stato bravo a convincere gli amici a seguirmi in viaggi allucinanti del genere, per questo mi sentivo un po’ un verme. Tuttavia, concedere a quella vecchia jeep, alla fine dei suoi giorni, un ultimo viaggio, mi faceva sentire alquanto buono e altruista. Purché ci avesse portati, da brava, fino a destinazione. La guida che ci era stata appioppata a Malindi diceva a malapena un paio di parole inglesi, o almeno fingeva, però era un ottimo cacciatore.

L’Africa immediatamente post-coloniale dava l’impressione di un bubbone in parte già esploso, specie al nord, ma che in gran parte doveva ancora, per così dire, “dare il meglio di sé”. Con il decadimento del monopolio anglo-francese, troppi interessi sarebbero venuti inevitabilmente a confliggere in quella fetta di mondo ancora divisa da insanabili e ancestrali odi tribali, che, ad esempio belgi e portoghesi, avevano fatto di tutto per tenere in buona salute. Checché se ne potesse dire, le colonie meglio gestite, anche sotto il profilo sociale, erano indubbiamente state quelle tedesche, smembrate alla fine della Grande Guerra nel 1918 dagli inglesi.

Accadde che, dopo una settimana di viaggio, giunti nei pressi del confine fra Tanzania e Zambia, decidemmo di fare una sosta nella cittadina di Kasanga. Facendoci largo, entrammo in un ostello che pareva essere diventato una sorta di ricovero per anziani, data la ragguardevole età dei frequentatori.

Feci caso a un tavolo al quale sedeva un gruppo di vecchi africani e con loro, come se niente fosse, perfettamente integrato, quasi parte dell’arredo del locale, un vecchio bianco, con le guance vagamente arrossate, piuttosto alto e secco, con lucenti capelli bianchi corti e diligentemente pettinati. Quello parlava il dialetto dei suoi compari correntemente e ogni tanto si lasciava scappare una battuta in tedesco, che gli altri capivano benissimo e alla quale rispondevano ridendo nella stessa lingua. Da ore giocavano a carte e bevevano birra.

Noi prendemmo due whiskey al bancone fumando una sigaretta.

Concludemmo che il posto era ospitale e che vi avremmo potuto passare tranquillamente la notte, quello ci mostrò dove avremmo dormito e lì lasciammo la nostra poca roba.

Quando tutti si erano già ritirati, l’unico ad essere rimasto lì al suo tavolo era il vecchio bianco. Aveva un viso duro e scolpito, fiero, prussiano, lo sguardo fisso verso il variopinto tramonto, come se si ritrovasse in quei colori potenti e guerreschi che si perdevano all’orizzonte dietro gli altipiani. Come mi sedetti a mangiare qualcosa ad un tavolo, quello si voltò lentamente verso di me e mi fece un moderato cenno di saluto.

“Che ci fa lei qua?” mi chiese dopo un poco che mi aveva notato. Parlava l’inglese con una inconfondibile pronuncia tedesca.

“Beh, che ci faccio io qua…” farfugliai sorpreso “sono in viaggio con un amico e una guida indigena che parla tutto fuorché l’inglese”

“Che ne pensa?”

“Beh sono posti meravigliosi, sognavo da sempre di poterci venire, proprio così, all’avventura” dissi addentando un pezzo di pollo.

“Ah!” sorrise “Qui io ci sono venuto in guerra, ero nelle Schutztruppe, nel lontano ’14, l’esercito coloniale tedesco di sua maestà Guglielmo II. Sergente Hans Broch”

Lo guardai incuriosito, se ne accorse e mi diede un’occhiata indagatrice dalla testa ai piedi. Gli porsi la scatola delle sigarette, per offrigliene. Indugiò lì per lì, poi con un gesto solenne se ne prese una e l’accese. Feci lo stesso continuando a guardarlo affascinato.

Allora incuriosito anche lui mi chiese: “Posso sedermi al suo tavolo?”

“Prego!”

Si rivolse in dialetto al ragazzo che serviva. Poi tornò alla conversazione.

“Sa, da allora sono rimasto sempre qui, mi sento come un albero con le radici ben sprofondate in questa terra rossa. Qui mi sento a casa. Beh a dire il vero c’è anche qualcosa di molto importante che mi lega a questo posto”

“Posso sapere di che si tratta?”.

Rimase un po’ perplesso davanti alla mia sfacciataggine, poi mi disse che se mi fossi trovato lì l’indomani all’alba mi avrebbe mostrato di cosa si trattava.

Così all’alba mi trovai lì, alquanto assonnato per essere rimasto a leggere fino a tardi, sotto la zanzariera, alla fioca luce d’una vecchia lampada ad olio.

Il vecchio era lì ad aspettare.

“Buongiorno. Sa, in fondo non mi dispiace dopo tanti anni raccontare la mia storia ad uno straniero di passaggio, fra poco del resto verrà la mia ora, a che pro tenermi tanti ricordi per non raccontarli a nessuno?”.

Ci mettemmo in cammino e costeggiammo per un lungo tratto il Lago, senza fare parola.

Una volta che ci fummo allontanati abbastanza dalla città, arrivati ad un certo punto, Hans si fermò di colpo. Mi pareva un luogo qualsiasi e non potevo capire perché proprio lì si fosse fermato.

“Qui è seppellita la mia donna, colei che mi fece prendere la decisione di rimanere qui” una lacrima sottile gli rigò il viso affilato.

“Come si chiamava?”

“Non voglio dire il suo nome, questo è ciò che mi chiese, di non pronunciarlo mai dopo la sua morte. Antica usanza della sua tribù.”

“E lei, non è mai tornato in Germania?”

Ci rifletté, poi disse: “Tornai solo una volta in Germania, nel ’35, i miei erano già morti da un pezzo e, certo, non rimpiansi di essere stato assente dal mio paese in quegli anni, gli anni in cui quel gruppo di montanari bavaresi prese il potere”.

Sorrisi all’espressione che quello adoperò per definire i nazisti.

“Le vie delle città e le piazze sono ancor oggi perlopiù affollate di uomini grigi, biechi personaggi, generali inetti, immortalati nella pietra o nel bronzo. Solo qualche raro elenco su scarne lapidi ricorda l’immane sacrificio delle masse di uomini qualunque che costò quei monumenti tronfi e vanagloriosi di vuoti uomini di stato. Nessun monumento, ricorda il mio generale Paul Emil von Lettow-Vorbeck, così come i più, che conoscono la storia antica a grandi linee, ricordano un Pericle, un Alessandro o un Cesare, anziché i buoni costumi e il genio militare, tramandati da Senofonte, del grande condottiero spartano Agesilao”

“Mi racconti di quest’uomo”

“Quel Lettow-Vorbeck era uno che sapeva davvero il fatto suo e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, per questo lo misero a capo delle Schutztruppe in Africa, lontano dalle alte sfere dell’esercito. Fu dapprima in Camerun, poi in Africa Occidentale e infine, allo scoppio della guerra, in Tanganica, dove ebbi l’onore di incontrarlo, io ero infatti a Tanga e fui per un po’ di tempo suo attendente. Proprio a Tanga ci fu il primo grande scontro, a seguito dell’attacco anfibio britannico. Ebbe il coraggio di muovere i suoi uomini, contrariamente al parere del Kaiser e del prudentissimo governatore della colonia, von Schnee. La sua grande forza fu nel riconoscere la secondarietà del suo ruolo, in uno scenario come l’Africa, non di primaria importanza, rispetto ai fronti europei. Come in una partita a carte, talvolta nella vita bisogna essere consapevoli del proprio ruolo, riconoscervisi ed accettarlo, anche qualora esso sia un ruolo qualunque. Bisogna credere nelle proprie carte qualsiasi esse siano. Di quali carte disponeva Lettow-Vorbeck? Circa 15 mila ascari e qualche centinaio di ufficiali e sottoufficiali tedeschi, gli inglesi lo sapevano e lo presero sottogamba. Egli invece fu il primo europeo a credere in un esercito indigeno, addestrò con fiducia i suoi ascari, contro i pareri dei patrii benpensanti, e li armò come poté. Tutti lo amavano, come un generale spartano, era sempre in mezzo ai suoi e i suoi costumi erano di specchiata onestà. Vincemmo a Tanga e poi a Jassin e Mahiwa, nel ’16, fu la nostra Maratona, migliaia i caduti inglesi e solo cento i nostri. Riuscimmo a mettere in ginocchio il sistema ferroviario della Rhodesia grazie ai nostri sabotaggi. Li colpivamo sempre dove meno se lo aspettavano e sa quanti uomini impiegarono gli inglesi in quei quattro anni?”

“Mi dica”

“Riderà, forse, pensando che io sia un povero vecchio crucco rimbecillito. Invece la prego di credermi”

“Senz’altro, non si preoccupi, ho sempre avuto un debole per le cose incredibili”

“Ebbene, allora deve sapere che in quegli anni gli inglesi furono costretti ad impiegare un numero considerevole di uomini in questa landa abbandonata da Dio. Ben 300 mila uomini in tutto. Per farlo, mentre il grosso dell’esercito era impiegato in Europa, dovettero per la prima volta affidarsi a un grande esercito indigeno, seguendo così la lezione di un odiato crucco. Contro un solo generale ne furono messi ben 137, uno dopo l’altro sconfitti. Le loro vittime furono circa 60 mila. La nostra impresa fu davvero memorabile!”

“Capisco ora perché lei abbia paura di non essere creduto Sergente”

“Già”

“Di fronte a un così glorioso passato non ha paura di vivere soltanto di ricordi?”

“Quella fu la grande irripetibile chance di tutta la mia vita, ogni altro successo che avessi tentato di raggiungere in seguito non l’avrebbe eguagliata. Mi resi conto, e me ne rendo conto tutt’ora, che in quella circostanza, io, figlio d’una maestra e di un impiegato delle imposte, sono stato partecipe d’un evento epocale che non avrei mai pensato, al fianco di uno dei più grandi generali di tutti i tempi, che conosceva i suoi soldati uno ad uno. Così decisi di rimanere qua, imparai l’inglese e fui assunto nelle Poste, potei rimanere così accanto all’indigena che avevo incontrato e verso la quale provavo un sentimento che i miei compatrioti mai avrebbero compreso. Restai al suo fianco fino all’ultimo giorno, quando la malaria se la portò via e venni qui a seppellirla affinché la sua tomba, quaggiù, nascosta, non si confondesse fra le altre. E poi, beh certo, l’uomo è chiamato ad un inesorabile ed inarrestabile declino, guardi la mia Germania: osannante davanti al Fuhrer, ora addirittura rasa al suolo e spartita fra americani e russi. Ogni uomo di buon senso, dinnanzi ad uno sventurato presente alla cui agonia assistiamo impotenti, non può che guardare al passato e, talvolta, rimpiangerlo, nulla di più umano non crede?”

Sorrisi e annuii. “E poi la guerra come andò a finire?”

“Lettow-Vorbeck ricevette l’ordine di arrendersi tre giorni dopo che l’armistizio era già stato firmato in Europa. Tenga conto che il fronte del Tanganica invece era ancora attivo, vivo e vegeto, saremmo stati senz’altro in grado di resistere ancora a oltranza, imbattuti. I due eserciti si incontrarono sul ponte Chambeshi, situato sul confine fra Rhodesia e Tanganica, poco lontano da qui. Ivi noi deponemmo le armi al cospetto del generale sudafricano Smuts. Lettow-Vorbeck fu promosso e, noi, ascari compresi, fummo richiamati in patria e marciammo trionfalmente sotto la Porta di Brandeburgo, unici eroi della Patria ad essere rimasti imbattuti”

“Mi domando come possano un tale generale e una tale impresa rimanere dimenticati dai posteri”

“Il povero generale rimase in Patria e volente o nolente dovette subire il nazismo. Non cedette mai alla corte che Hitler gli fece, la sua adesione al Terzo Reich, disse egli stesso, gli era anatomicamente impossibile. Conservatore di ferro e monarchico di vecchio stampo, non poteva soffrire le rivoluzioni, eppure fu a suo modo “rivoluzionario”, né vedere il potere in mano a quei fanatici che non lo meritavano, come le perle ai porci. Manco a dirlo, si ritirò in campagna lontano dagli affari di stato e non prese più parte a nulla. Per questo venne dimenticato; gli uomini per troppo tempo hanno agognato le stridenti e sconclusionate urla dei vari fuhrer novecenteschi. I tedeschi erano allora troppo indaffarati nel perdere ogni traccia della propria individualità e uniformarsi alle masse oceaniche armate d’odio, stregate da volgari sobillatori e lanciate verso l’illusione di una grande nazione onnipotente, non potevano prestare attenzione ad un tenace vecchietto di campagna, da anni lontano dalle luci della ribalta. Erano lontani i tempi di Cincinnato, ahimè!

“Così egli, alcuni anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, decise di far ritorno fra i suoi “cari”, curioso di vedere se ancora qui qualcuno lo ricordava. Quando arrivò in Tanzania fu accolto con tutti gli onori dai suoi ascari. In suo onore fu intonato l’Haya Safari, l’inno delle Schutztruppe. Quando morì, ad Amburgo, dispose che i suoi beni fossero devoluti ai suoi veterani, se ne occupò la Banca Nazionale Tedesca. Tuttavia quando l’incaricato fu inviato qui si trovò a dover risolvere un problema non da poco. Come infatti dimostrare chi davvero erano i veterani di von Lettow-Vorbeck? Numerosi vecchi portavano come dimostrazione brandelli di divise coloniali tedesche, ma ciò non era sufficiente. Si decise allora di fare ad ognuno un semplice esame: ognuno avrebbe ricevuto una scopa ed eseguito, con quella, degli ordini impartiti in lingua tedesca. A distanza di quasi cinquant’anni tutti gli ascari passarono meritevolmente l’esame. Quella fu la più grande vittoria del mio generale” sentenziò il Sergente dopo tanto parlare.

Rimanemmo un po’ in silenzio scrutando l’acqua. Poi mi volsi verso il vecchio che fece come per scrollarsi di dosso i suoi ricordi. Ci riavviammo dunque verso il centro.

Giulio e la guida erano lì preoccupati temendo che fossi stato rapito o qualcosa del genere, mi guardarono con aria di rimprovero. Personalmente ero troppo emozionato da quello che il vecchio sergente tedesco mi aveva raccontato e troppo entusiasta per aver scoperto quella storia ignota ai più.

Salutai quell’uomo con una calorosa stretta di mano e sguardo riconoscente. Poi partimmo e lasciammo Kasanga. Il sergente tornò a giocare a carte.

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Un antico mito assiro, riportato anche dal ceco Jan Patocka, nei suoi “Saggi eretici sulla filosofia della storia”, vuole gli uomini creati dagli dei del Cielo, da membra di semi-dei, per un fine alquanto bizzarro, eppure comprensibilissimo: far loro sbrigare le faccende più faticose, le quali, s’intuisce, in origine gravavano dunque sulle spalle degli esseri celesti. Nell’inesorabile avvicendarsi storico di “sfruttatori” e “sfruttati”, tale mito, ha subito continue rielaborazioni a vantaggio di despoti e potenti, “delegati divini in Terra”. Uno sterminato corollario di miti, quindi, più o meno simili l’uno all’altro, attorno alla fatica come condanna a tempo indeterminato e/o perdita dell’originaria felicità, rende l’idea di quanto il lavoro sia da sempre inviso all’uomo. È tema ricorrente la caduta dell’uomo, dalle nuvole nella leggenda, dalle impalcature oggi. Da sempre egli deve guadagnarsi il pane innaffiando l’ingenerosa terra con il sudore della propria fronte, se non con il sacrificio del sangue, e trovare edulcorati motivi consolatori alla sua condanna.

Il tema del lavoro, che nei giorni nostri torna quanto mai attuale, è stato pure oggetto di speculazioni filosofiche. Nella rielaborazione marxiana, esso, è alienazione da se stessi, se tutti gli altri animali, infatti, dedicano il loro tempo eminentemente ad attività nelle quali si sentono appagati o rigenerati, la stragrande maggioranza degli uomini lotta invece per avere un lavoro (possibilmente a tempo indeterminato, come la condanna divina del resto) e conservarlo; esso gli consente di occupare uno “spazio”, di cui egli ha bisogno vitale nella Società in cui si rapporta con i suoi simili, ma in realtà in esso, nel “Dio lavoro”, secondo la visione di Marx, perde del suo, l’uomo, animale anomalo, “scimmia malata” (per dirla con Unamuno), lavora, ma solo in vista di un futuro meritato riposo, in vista di un tempo in cui potrà dedicarsi ad altre attività, le più svariate, nelle quali si senta davvero rigenerato, appagato, ma alle quali, in realtà, non può dedicare che un’infima percentuale della sua esistenza. L’uomo è doppiamente sfortunato, in quanto non solo muore, per così dire, “di vivere”, come del resto tutti gli altri “esseri viventi”, ma muore anche “di lavorare”, immolato da qualche “demone” sull’altare del “Dio lavoro”, egli è vittima sacrificale, in un mondo in cui davvero l’uomo qualunque è sempre più “fatto per lavorare”, piuttosto che “il lavoro per l’uomo”.

I nomi delle migliaia di morti e infortunati sul lavoro, eminentemente nei cantieri edili, attraversano il nostro paese da Milano a Catania come una profonda, gravissima ferita purulenta, alla quale i più restano indifferenti, come se non ne avvertissero il dolore. Una carente e lacunosa legislazione, una spesso inadeguata, se non del tutto inesistente, applicazione delle norme, nonché la mancanza di una coesa e combattiva opinione pubblica (specie in certe zone del Paese maggiormente depresse, poco sensibilizzate e molto disinformate) fa sì che negli ultimi anni si sia fatto meno, in quanto a sicurezza sul lavoro, di quanto non fosse stato fatto nei vari governi Giolitti agli inizi del secolo scorso.

Lo Statuto dei Lavoratori, all’articolo 9, dice: “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”. La figura del rappresentante, introdotta più di trent’anni fa e presa allora in prestito a giurisdizioni, quali quella francese e quella tedesca federale, di gran lunga più avanzate della nostra al riguardo, promuove l’attuazione delle misure di prevenzione, formula osservazioni in caso di visite di verifica, avverte il responsabile dell’azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività, può far ricorso alle autorità competenti, etc. Posto che tale figura  comunque non può esistere in una situazione di illegalità e lavoro nero, sembra utile sottolineare che l’obbligo di consultazione, da parte del datore di lavoro, non equivale affatto a parere vincolante per quest’ultimo.

A partire dagli anni ’90 non si è più voluto parlare di “rischi che non possono essere evitati”, piuttosto si è iniziata a promuovere una certa preparazione al fine di garantire una sempre maggiore consapevolezza dei pericoli che esistono in azienda per giungere ad una riduzione dei rischi. Primo attore della sicurezza dev’essere il datore di lavoro. Proprio il datore di lavoro è invece, ancora oggi, spesso attore di situazioni di sostanziale in-sicurezza. Lapsus, come li chiama efficacemente Marco Rovelli, come a dire “il ritorno di un rimosso, di un evento respinto nell’inconscio che, all’improvviso, torna fuori, una dimenticanza che torna a galla”, o, più semplicemente, una “scivolata” (lapsus) appunto. Si muore per distrazione infatti, per incompetenza forse, talvolta, ma senz’altro troppo spesso per inosservanza di semplici norme, piccoli accorgimenti, da parte di alcuni datori di lavoro, criminali o irresponsabili, e per la mancanza di un’adeguata politica di informazione e sensibilizzazione (anche nei confronti dei “non interessati direttamente”) da parte dello Stato e dei mass-media. È soprattutto evidente che questi ultimi si “appassionano” al problema solo quando succede qualcosa di talmente macroscopico (posto che un padre di famiglia o un figlio precipitati da un’impalcatura non rappresentino di per sé un “problema macroscopico”)  da non essere più “ignorabile” (specie se magari succede nel centro di una grande città), ma ignorano forse, che un cittadino qualsiasi, minimamente informato, se avesse voglia di approfondire potrebbe agevolmente scoprire che di morti sul lavoro ce n’è tutti i giorni, specie nei cantieri edili, moltissimi sono lavoratori non regolari, immigrati clandestini sfruttati come schiavi o italiani costretti al lavoro nero per motivi di particolare disagio. Lo Stato invece ha fatto sì che il problema della sicurezza sul lavoro sia diventato un problema né di destra né di sinistra, perché fondamentalmente scartato dalle tenzoni politiche o comunque sempre marginale, forse trascurando la forza politica che potrebbe rappresentare una massa di lavoratori coesa, informata, tutelata, mentre d’altro canto si può notare, senza essere comuni moralisti, quanto il progresso tecnologico sia sempre più volto a schiacciare l’uomo o quantomeno “alienarlo” da sé, piuttosto che tutelarne i diritti e l’incolumità sul posto di lavoro.

Eppure la Costituzione Italiana recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” (“l’anche-troppo-a-sproprio-citato” art.1).

L’art.35 garantisce che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le forme e applicazioni”. Ciò, evidentemente, non può avvenire senza una seria politica di lotta senza quartiere al lavoro nero e alla inosservanza delle basilari norme di sicurezza (quante impalcature, ad esempio, si possono ancora vedere con pericolanti tavole di legno e/o senza rete elettrosaldata né tavola fermapiedi?), senza una politica di indagini a tappeto sul posto, una legislazione che consenta agli organi preposti irruzioni nei cantieri, ispezioni improvvise (durante le ispezioni è frequente vedere operai che scappano perché non in regola), agenti in borghese che monitorino e documentino sistematicamente le situazioni ove c’è pericolo e inosservanza delle leggi e le denuncino al fine di far intervenire la Magistratura, o che, eventualmente, nell’emergenza immediata possano intervenire senza bisogno di mandato (quante volte i mandati arrivano troppo tardi?!).

Specie alla luce dell’art.41 che dice: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, viene da chiedersi: quale dignità umana in una moglie privata del marito, in una madre senza più figlio, in un figlio senza padre? Non sarebbe poi anche ora che la nostra legislazione desse un taglio netto al lavoro nero proprio a partire da una più seria politica “restrittiva” che non consenta che imprese edili senza dipendenti possano iscriversi alla Camera di Commercio oppure che imprese con dipendenti morti in cantiere il giorno stesso che sono stati messi in regola possano continuare ad operare? Una politica che non lasci in una scandalosa impunità gli impresari edili che non si curano della tutela dell’integrità fisica dei loro dipendenti, una politica in virtù della quale non può accadere che un lavoratore su cinque debba aprire un contenzioso con l’Inail per vedere riconosciuti i propri diritti, spesso costretti a provvedere da soli alla propria guarigione. Oltre 13 mila infortunati, nel 2004, hanno impiegato da un minimo di quattro mesi ad un massimo di quasi tre anni (500 casi circa) per ottenere un indennizzo. Dov’è finita allora “la retribuzione proporzionata (…) e in ogni caso sufficiente ad assicurare (al lavoratore e alla sua famiglia) una esistenza libera e dignitosa”, citata nell’articolo 36? Emerge inoltre in numerose indagini la scarsa presenza delle istituzioni, locali e governative, nelle politiche di sostegno finanziario e psicologico del lavoratore e della sua famiglia. Nelle pratiche di reinserimento sul posto di lavoro, il supporto fornito dalle istituzioni, secondo i lavoratori intervistati, è sostanzialmente assente e le imprese tendono ad emarginare il lavoratore infortunato fino ad arrivare, talvolta, al licenziamento. Ciò è spia anche di un carente sistema di collocamento per gli invalidi che dovrebbe essere volto all’attivazione di percorsi formativi mirati a individuare nuove professionalità. Del resto solo un’armonia fra le parti e un rapporto umano instaurato fra datore e lavoratore sarebbe il primo passo verso un grande cambiamento: la sicurezza di un lavoratore è frutto di un insieme di rapporti. Art.38: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Com’ebbe a dire Miguel de Unamuno, ogni uomo dovrebbe rifiutarsi di obbedire a “superiori” che non tengano in considerazione di aver a che fare con uomini, appunto, esseri di carne ed ossa, sentimento, non macchine da spremere fino all’ultimo. Uomini che scivolano, cadono, si infortunano, o magari non hanno più i riflessi di un tempo, e conservano le loro cicatrici nel corpo e nell’animo, irreparabilmente, per sempre.

Oltre al problema dei tempi d’indennizzo, più o meno lunghi (causa, sovente, di una fase di mancato reddito), al lavoratore spesso si presenta un ammontare d’indennizzo generalmente insufficiente, perché gli stipendi degli edili sono molto bassi, perché c’è un’elevata presenza di lavoro irregolare che riduce l’ammontare registrato nelle buste paga, perché gli indennizzi per danno biologico sono rapportati al “grado di invalidità”, spesso sottovalutato. Il lavoro edile, inoltre, a differenza di molti altri, comporta in questi casi assenza di lavoro per impossibilità ad operare nel cantiere, se non, addirittura, la fuoriuscita dal mercato. Basso ammontare della rendita, ritardo nei pagamenti, mancanza di supporto tecnico e psicologico, spingono, in alcuni casi, il lavoratore, a denunciare l’infortunio come malattia, per ottenere più facilmente i soldi. Questa denuncia, si capisce, non equivale ad una denuncia di infortunio nei confronti del datore inadempiente. È opinione diffusa che l’Inail, nella definizione dell’infortunio, dovrebbe considerare anche le, talvolta gravi, conseguenze per la salute mentale dell’infortunato, nonché della famiglia. “Da quel momento sono entrata in una realtà che non conoscevo, che non era più la mia, fatta di sofferenza, di solitudine, di disperazione. I Carabinieri decisero di farmi riaccompagnare a casa. Nel tragitto del ritorno avevo un pensiero fisso: come avrei fatto a dire ai miei bambini che il loro papà non sarebbe mai più ritornato a casa? Come avrei trovato le parole giuste?”, queste le parole di Ilaria Pastorello, vedova del carpentiere morto sul lavoro (nel 2008) Fabio Castaldelli. Parole drammatiche, da tragedia, che rendono l’idea di quale sia la condizione psicologica dei famigliari (madre e due figli in questo caso) delle vittime. I figli di Ilaria da allora guardano ogni sera il cielo stellato chiamando “papino” la stella polare.

Le istituzioni nel complesso sembrano incapaci di supportare un reale processo di riaffermazione individuale e di ricostruzione dell’identità per chi subisce un infortunio sul lavoro, componente, questa, meglio sviluppata in altre legislazioni europee.

“Sull’altare della chiesa, come un’icona dei sacrifici umani”, l’immagine efficace e potente che usa Rovelli raccontando la vicenda, una fra le tante, di un muratore che due anni fa, a Catania, probabilmente per un malore, ma senz’altro se ci fossero state le sicurezze necessarie non sarebbe caduto da un lucernario, precipitò dal tetto della chiesa e morì.

La storia di Salvatore Romeo, raccolta nell’inchiesta “Lavorare Uccide” del Rovelli, assomma una serie di elementi che si trovano, in genere, nelle vicende di morti nel settore edile. Lavorava al mulino di Santa Lucia di Catania, che il Comune aveva deciso di ristrutturare. L’8 febbraio del 2000 morirono due persone lì dentro, che qualcuno cercò di far credere si trattasse di “due ladri che magari volevano rubare qualche attrezzo”. La moglie del più giovane dei due (Romeo) sapeva che era stato chiamato a lavorare lì. La cosa non poteva reggere, per fortuna, benché ciò ci lasci un inquietante domanda: se non fosse intervenuta la moglie o magari qualcuno l’avesse “tacitata”?

Due sindacalisti testimoniarono che quei lavoratori erano stati visti lavorare “in condizioni impossibili”. Li avevano invitati a scendere, ma, viene da dire: “quanto sa di sale” il pane che per forza bisogna portare la sera a casa, anche a costo di lavorare a rischio della vita stessa! I due sindacalisti andarono il giorno dopo a chiedere la licenza al comune, anche per capire quale fosse la ditta che stava facendo i lavori, visto che davanti al cantiere non c’era nessun cartello come la legge richiederebbe. Risposero loro che ci sarebbe voluto qualche giorno per sapere, purtroppo la disgrazia è stata più veloce. La moglie racconta: “Aveva pattuito una paga settimanale di 300 mila lire dal lunedì al sabato, ma non gliela davano. Così aveva smesso di andarci al cantiere” ma poi “quello lo convinse a lavorare ancora per una settimana”, “poi ti do tutto”, aveva promesso. Il solaio era antico, fatto di lame di ferro, loro lo dovevano tagliare con la fiamma ossidrica lasciando in piedi solo i muri perimetrali antichi, per fare tutto nuovo all’interno. Un lavoro che avrebbe dovuto esser fatto puntellando la struttura vecchia, utilizzando ponteggi interni ed esterni, invece all’interno non c’erano. Lavoravano senza alcuna misura di sicurezza, erano sullo stesso solaio che stavano tagliando: tagliavano un pezzo di ferro e con la mazza lo facevano cadere a terra. Un bambino capirebbe che per una comune legge statica quell’operazione non poteva reggere. Il solaio infatti cedette.

La vedova non ha ancora ricevuto risarcimento, i quattro imputati sono stati condannati ad un anno e mezzo di reclusione e a pagare una provvisionale alla famiglia. Fra l’altro, l’uomo che ingaggiò Salvatore, era un pregiudicato mafioso, specializzato in appalti di opere pubbliche. Per quanto riguarda la provvisionale gli imputati risultarono tutti “nullatenenti”, l’indulto fece il resto.

La vedova vive ora di 700 euro al mese, i figli, appartengono ad una categoria protetta, in quanto orfani del lavoro, ma dopo tre anni dalla maggiore età nessuna chiamata. Oltre all’indifferenza della Legge che emerge da questi due ultimi fatti, da questa vicenda emerge un altro grosso problema: ditte appaltatrici  criminali che operano nell’impunità, quasi alla luce del sole, che in realtà non dovrebbero poter fare nulla. Spettro inquietante che si ripresenta costantemente, a quanto pare ancora di recente a proposito di TAV e ricostruzione in Abruzzo.

Resta il fatto che sono comunque inammissibili corse agli appalti da parte di ditte che gareggiano al massimo ribasso, dal  momento che, come si sa, a rimetterci è sempre puntualmente la sicurezza, infatti proprio dal risparmio su di essa esce il profitto, in tali casi, non dalla spesa per i materiali, che hanno un prezzo e da quello non si può prescindere.

“La condizione di Salvatore”, dice Turi, il sindacalista che si prese a cuore la situazione, sottolinea una realtà, quella catanese, di “degrado totale, ove si è costretti ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione”. Nella provincia di Catania si considera che ci siano circa sei morti all’anno nell’edilizia. Spesso i sindacalisti siciliani, e non solo, si trovano ad avere a che fare con prestanome, “del resto”, dice Turi, “chiunque può improvvisarsi imprenditore edile, non è richiesta nessuna particolare esperienza o formazione, basta andare alla Camera di Commercio e aprire una partita Iva con la causale: imprenditore nel settore della costruzione. Qualcuno propone una patente nei lavori a rischio”.

Non si può non tener conto, leggendo questi dati, che il settore dell’edilizia è in Italia, fra i settori produttivi, quello che tira di più il PIL, ma questa crescita ha un costo umano, infatti il settore edile è anche quello che in Italia fa registrare quasi un quarto di tutti i casi mortali, dove cinque infortuni su cento denunciati (innumerevoli quelli che non vengono regolarmente denunciati, che secondo l’Inail potrebbero pure raggiungere la spaventosa cifra di 200 mila) comportano menomazioni permanenti e invalidità. Nel 2006, nel settore edile, sono morte 258 persone: uno su sei è immigrato e il 49% dei casi avviene al Nord, specie in Lombardia, “dove è sì più concentrato il mercato, ma dove la maggior ricchezza dovrebbe consentire una quota più alta per la sicurezza”, secondo il Rovelli. Oltre il 45% muore cadendo dall’alto, il 25% travolto da una gru o da un carrello elevatore o da una ruspa, il 15% colpito da materiali di lavoro, il 10% coinvolto nel crollo di un ponteggio, il 5% folgorato. Solitamente gli incidenti mortali dipendono da scelte effettuate prima dell’inizio dei lavori, le cadute dall’alto ad esempio possono essere prevenute mediante una differente concezione delle architetture, delle attrezzature, dei materiali e dei posti di lavoro. Molti dipendono dall’esecuzione di attività simultanee incompatibili, dovute a mancanza di organizzazione nel cantiere.

Donato Venditti, un sindacalista operante nel torinese, racconta di un ragazzo diciottenne, Sebastiano, che rimase fulminato sotto i cavi dell’alta tensione toccati dal braccio della gru di un collega che si era allungato troppo. Chi la guidava non era il gruista, che al momento non era presente, particolare “trascurabile” quando bisogna fare tutto in fretta, tanto che quando Donato giunse sul luogo tutto era tornato in azione, operai e macchinari all’opera, come in una catena di montaggio che ha avuto un intoppo ora risolto, come se nulla fosse. “Se non c’è il gruista bisogna fare lo stesso. Se muore un operaio, bisogna andare avanti comunque: c’è il capocantiere, che organizza le squadre, il suo compito è quello di farle lavorare il più in fretta possibile, se lo fa c’è il premio di produzione”, afferma con una nota di tristezza il Venditti. Ciò che impressiona è l’indifferenza, la rapidità con cui si digerisce la morte, la morte tragica e improvvisa di un diciottenne lavoratore, l’indifferenza per l’essere umano, per il diritto di “essere umani”.

Indicativo caso di ribellione quello avvenuto alla Fiera di Milano, quando tre ragazzi, a seguito della morte di un muratore vicino a loro, indissero un’ora di sciopero (fra l’altro pioveva, quando piove di regola non si lavora, ma del resto non c’è da stupirsi, sul lavoro si muore anche di domenica!). Il caporale intimò ai tre che se non volevano lavorare potevano andarsene, non avrebbero nemmeno avuto i soldi dovuti. I tre ragazzi allora salirono su una gru, si barricarono lassù, cominciarono a gridare. Un evento inatteso che turbò profondamente la pace del dirigente della Nuova Polo Fiera, società che gestiva l’appalto, che intervenne con tre assegni. La ditta per la quale lavorava il caporale venne sospesa dai lavori, i tre ragazzi se ne scapparono lesti. Nessuno avrebbe loro data l’adeguata protezione se avessero raccontato certe cose.

“Perché proprio a me? Non ho fatto nulla di sbagliato!”. Sono le prime istintive considerazioni da parte di chi, come l’infortunato Massimo Anselmo (autore dell’articolo “Come si muore nei cantieri”, apparso sul sito di Filca Cisl Piemonte) ha seriamente rischiato la vita in un cantiere. Per poi infine considerare che “negli incidenti sul lavoro non esiste la sfortuna, ma soltanto una sbagliata valutazione dei rischi”.

Secondo lo studioso Sergio Bologna un problema rilevante è il fenomeno “culturale” italiano delle piccole imprese edili, infatti “le imprese hanno continuato a decentrare, subappaltare, esternalizzare. Sempre più frammentazione, sempre meno tecnologia, sempre più persone che lavorano senza capitali, senza sussidi, che vivono solo del proprio capitale umano. Le imprese italiane spendono per la sicurezza, in relazione al PIL, poco più di mezzo punto percentuale, in Francia tre volte tanto, in Svezia sei”.

Aggravano, talvolta, la triste vicenda delle “morti bianche” nel nostro Paese le leggi. Se è vero infatti che con la legge Bersani i lavoratori in nero sono diminuiti, sono aumentati i contratti part-time di circa il 60% , benché quasi nessuno vada in cantiere per quattro ore, si va per finire. “Lavoro grigio” lo chiama Rovelli, secondo il quale il concetto è: “Tu lavori otto, dieci ore, io te ne pago quattro, per pagarti tu mi firmi la busta paga, e una volta cha hai firmato non puoi più contestare nulla”. Soprattutto poi la legge continua a fare cilecca. Dall’indagine svolta in “Lavorare Uccide” emerge che nel 2007, ad esempio, “sono stati chiusi 800 cantieri dopo 2 mila ispezioni, ma quasi tutti dopo due giorni erano riaperti”.

Alla base di tutto si ha infine motivo di affermare che resta un profondo problema culturale: l’opinione pubblica andrebbe sensibilizzata, a partire dalle scuole, con l’introduzione dello studio di tali insegnamenti d’interesse etico-civile nelle ore dedicate alle materie umanistiche, con più interesse da parte dei mass-media e maggior spazio a chi si occupa del problema con serietà e impegno, magari inascoltato da anni, nonché un’adeguata formazione finanziata da datori di lavoro e Stato che dia origine a dei “lavoratori consapevoli e responsabili”, consapevoli dei propri diritti, responsabili in quanto consci dei rischi cui vanno incontro affrontando determinati pericoli (senza sottovalutarli) e responsabili davanti ai colleghi delle proprie specifiche competenze (es: chi fa il gruista faccia il gruista, ma chi non lo è non si improvvisi tale), sensibilizzazione degli apparati che si occupano di appalti pubblici, restrizioni da parte delle Camere di Commercio che richiedano agli imprenditori edili un brevetto ottenuto a seguito di un corso di formazione di livello. Per portare avanti quest’operazione di profondo cambiamento del settore è necessario che ciascuno collabori e si prenda le proprie responsabilità nei confronti di un “utile collettivo” più giusto, dignitoso e umano, anche quando il problema in questione non lo riguardi direttamente.

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Negli anni Trenta, Lord Winston Churchill, che, sebbene già alle soglie della vecchiaia, doveva ancora raggiungere il picco della sua vita, con il leggendario discorso alle Camere e ciò che ne conseguì, lucido e profetico diceva: “Quasi nulla di ciò che io sono stato educato a ritenere vitale e permanente, quasi nulla di tutto questo è rimasto in piedi. Tutto ciò che ritenevo impossibile, e che ero stato educato a ritenere impossibile, ebbene, tutto questo è accaduto”. La Prima Guerra Mondiale aveva infatti disilluso la sua generazione dai rosei sogni della Belle Epoque e aveva spazzato via le prospettive ottimistiche dell’Era Vittoriana. Con quelle poche parole, il futuro Primo Ministro, si riferiva certo all’ormai imminente crollo di buona parte dell’Impero Britannico, al crollo già avvenuto degli altri imperi europei di riferimento (quello Asburgico ad esempio, caposaldo dell’illuminata e dolce civiltà mitteleuropea), ma anche alla allora recente ascesa di Adolf Hitler e del suo (dapprima piccolissimo) Partito Nazista allo scranno del potere nella Germania post-imperiale, alla fine di ogni speranza riposta dalle Democrazie Occidentali nella neo-nata e fragile Repubblica di Weimar, e non poteva non riferirsi all’ascesa di Iosif Stalin e del comunismo più rigido, intollerante, fanatico in Russia, dopo la morte di Lenin, destinata a rimanere avvolta nel mistero.

Le istanze più liberali e social-democratiche sembravano davvero aver fallito, infatti il potere popolare, in molti casi, non aveva fruttato altro che il sovvertimento delle regole, delle tradizioni, dei savi e collaudati costumi costituzionali e parlamentari, che, forse sia nel bene sia nel male, avevano tuttavia fino ad allora conservato e tutelato una qual certa idea tutta occidentale, cristiano-platonica, di umanità. Le masse avevano detto “sì” all’unisono ai loro demagoghi, un sì impersonale, raggelante, carico di superstizioni, pregiudizi, odi accumulati nei secoli e indirizzati da “rivoluzionari di professione” contro le categorie ad essi “ostili”. Successe in Russia, in Italia, in Germania, nell’Europa Centro-orientale, nei Balcani, tutte realtà uscite profondamente provate dalla Grande Guerra e dalle direttive del poco lungimirante Presidente statunitense Woodrow Wilson, realizzate nel Trattato di Versailles del 1919, che di fatto sfavorirono un po’ tutti e furono motivo di impensabili inasprimenti di inimicizie.

Profanati gli antichi valori, la strada al Totalitarismo (davvero infatti tutti i totalitarismi si potrebbero raggrumare in un unico macro-concetto, come esposto da Hannah Arendt nel trattato “Sui totalitarismi”), in tutte le sue forme, era spianata. Del resto, secondo alcuni storici, la Prima Guerra Mondiale, ne fu senz’altro un preludio, con il suo impegno univoco massificato e totale che coinvolse tutti i paesi interessati nella loro interezza.

Dice la Arendt nelle sue “Lezioni di filosofia morale”: “fu allora che ci accorgemmo del significato originale, etimologico della parola morale, proveniente dal latino mores, che significa semplicemente usi o costumi, usi o costumi che si possono cambiare all’improvviso senza troppi problemi, così come si possono cambiare da un giorno all’altro le nostre abitudini a tavola”. L’Europa piombava in un incubo senza precedenti, o forse, come mettono in luce le parole della Arendt, semplicemente si risvegliava da un sogno, tornava alla realtà, nella quale alla luce, gli “uomini comuni”, avevano preferito, consapevolmente o no, le tenebre.

Per Kant, che, come tutti gli uomini vissuti prima del Novecento, godeva ancora di una qual certa “originaria innocenza” (malgrado tutto ciò che gli uomini avevano già combinato prima della sua nascita), “se la giustizia perisce, allora non ha più senso la vita umana sulla terra”. Eppure la “vita umana” sopravvisse anche al totale collasso delle norme morali “kantiane”, fino ad allora vigenti nella vita pubblica e privata.

Tutti ne condividono in qualche modo la “colpa”, una “colpa metafisica”, di cui parla Karl Jaspers nel saggio “La questione della colpa”. Una colpa che è essenzialmente senso di solidarietà umana, che fa sì che ognuno si senta in qualche modo corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo e contro i quali non si fa tutto il possibile per impedirli; il fatto stesso di sopravvivere è da alcuni avvertito come “colpa” incancellabile, in un senso che non può essere adeguatamente compreso da un punto di vista giuridico, politico o morale. Esso si legge negli occhi persi e irreversibilmente addolorati del macchinista dei treni di Treblinka, Gawkowski, nel film di Claude Lanzman, un omino consumato e tutto curvo, macchinista per fame, ubriaco di vodka per riuscire a non fare più caso alle urla delle donne, dei vecchi e dei bambini nei vagoni che trascinava verso la morte.

Allora la domanda non è più: “era un ingranaggio grande o piccolo?”, bensì “perché ha acconsentito a diventare un ingranaggio?”. Infatti in tale contesto diventa fondamentale il ruolo dell’individuo singolo, che, apparentemente nullificato dal “potere di massa”, dall’onnipotente “Volksgeist”, dice anticonformisticamente “no!”. Egli infatti resta inevitabilmente responsabile delle proprie scelte, in quanto dotato di intelletto autonomo. Le scelte dell’individuo, un microbo di fronte al sistema e ad un popolo religiosamente indottrinato, diventano infatti di un peso incredibile. Non tutti, è ovvio, pure Jaspers conviene, possono riuscire a sobbarcarsi un tale peso, pur non essendo, s’intende, moralmente, né politicamente colpevoli criminali. Ciò è inscritto nella natura umana, nella sua fallibilità e fragilità. Un pugno di individui, però, possono in ogni caso fare realmente la differenza e ri-nobilitare il genere umano, fare in modo che esso continui ad avere un “senso”, per dirla con Kant. Questi ultimi sono i Giusti, coloro che, come le stelle nella buia arcata celeste, sono disseminati nella storia umana e nei suoi momenti più bassi e tetri, nel Novecento ad esempio, quando agli abissi più profondi e tragici c’è bisogno della risposta di un faro da seguire, nella cui scia luminosa tornare a camminare.

Sebbene non disertarono completamente la barbarie, forse non poterono, scelsero comunque di essere giusti i 3 soldati tedeschi del Battaglione 101, nel Governatorato di Lublino, che fecero vera e propria “obiezione di coscienza” dichiarando formalmente di non voler prendere parte ai plotoni di esecuzione. Suddetto battaglione poliziesco infatti, reclutato fra operai, impiegati, commercianti, artigiani, per estrema necessità, si costituiva di circa 500 unità e si macchiò, a partire dal massacro di Jozefow del 13 luglio 1942, dello sterminio di circa 83 mila ebrei (donne, vecchi e bambini, gli uomini adulti venivano più spesso inviati ai campi), “ordinaria crudeltà”, la definisce efficacemente Christopher Browning. Sebbene potessero tutti legittimamente fare obiezione di coscienza alle attività di rastrellamento nei villaggi conquistati, ci furono soltanto tre casi di obiezione. Infatti il problema fu proprio quello dell’annullamento delle coscienze, e il male, senza che quasi l’Europa se ne potesse accorgere, diventò “banale”, insinuandosi in ogni meandro della psiche umana, avvolgendola e penetrandola, per i vari Eichman, per i ragazzi del Battaglione 101, per molti altri comuni aguzzini annidati nella quotidianità, criminali della porta accanto.

“Disgraziatamente, in Europa, si è, ancora, molto più sensibili ai delitti contro il corpo che ai delitti contro la coscienza. La pubblica opinione è assai più impressionata oggi, dalle brutalità delle truppe hitleriane, di quel che sarà, fra qualche tempo, dalle violenze morali di cui soffrirà legalmente il popolo tedesco. Il giorno in cui Hitler avrà imposto alla Germania il suo ordine e la sua legalità, anche i bambini tedeschi non saranno che dei poveri esseri tristi e tormentati, già rassegnati a un’esistenza di schiavitù e d’infelicità: delle piccole spie piene di paure e di rimorsi”, scriveva il “profeta” Curzio Malaparte all’alba dell’Olocausto. Nel Terzo Reich, come in Unione Sovietica, intere generazioni di bambini, strappati alla bontà ingenua dell’infanzia, furono cresciute ad un solo ed unico scopo: l’affermazione della propria razza/classe sociale, l’odio e l’annientamento dell’avversario: l’ebreo/il “capitalista”, senza “se” e senza “ma”, nel manicheismo più assoluto, come prodotti di un’efficiente catena di montaggio, scatole piene di falsi insegnamenti, del tutto prive del filtro della coscienza individuale.

“Warum?” “Hier ist kein warum!”, rispose qualcuno a Primo Levi ad Auschwitz. “Qui non c’è perché”, è la risposta che molto probabilmente ciascuno di noi potrebbe darsi. Se non fosse che pure la scelta etica giusta, che molti compirono in quegli anni, era del tutto scevra da razionali “perché”.

Oskar Schindler, un imprenditore cecoslovacco, donnaiolo, filo-nazista, avventuriero, un uomo spensierato che si godeva la sua vita piena di gioie e soddisfazioni, dopo aver assistito, con i suoi stessi occhi, al rastrellamento del ghetto di Cracovia nel ’42, salvò ben 1200 ebrei dagli orrori di Plaszow impiegandoli nella sua azienda. Giorgio Perlasca, padovano, fascista della prima ora, volontario in Africa Orientale e poi in Spagna nelle milizie di Franco, proprio grazie a un suo vecchio documento di congedo, si rifugiò all’Ambasciata Spagnola di Budapest dopo l’8 settembre 1943. Ivi, quando l’ambasciatore se ne andò, continuò ad alloggiare e sfamare ebrei in case protette da extra-territorialità, controllate dall’Ambasciata, fingendosi egli stesso rappresentante ufficiale della Spagna (a rischio della sua stessa vita). Ciò poté essere fatto grazie ad una legge voluta nel ’24 da Miguel Primo de Rivera, grazie alla quale, a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (scacciati dalla Spagna nel lontano 1492), poteva essere riconosciuta la cittadinanza spagnola. Grazie ad essa e alla buona volontà di Perlasca, vennero salvati 5000 ebrei magiari. Lo stesso fecero coraggiosamente anche le Ambasciate di Svezia, Svizzera, Portogallo, tutte nazioni non coinvolte nel conflitto.

Una vicenda che invece fa quasi eco a “L’amico ritrovato” di Uhlman, è quella del celebre filosofo Cioran, in gioventù aderente al movimento rumeno del filo-nazista Codreanu (La Guardia di Ferro), che andò a cercare l’amico ebreo Fondane (dimenticato allievo del grande esistenzialista ebreo ucraino Lev Sestov) ad Auschwitz, quando questo là fu deportato e morì.

Dio, che può anche essere interpretato, in una delle sue più alte accezioni, come intimo ed irrazionale impulso a scegliere il Giusto, ad assumersi le proprie responsabilità, a costo della propria incolumità, talvolta davvero “irrompe” inspiegabilmente nel cuore dell’uomo. Irrompe nel male. Proprio il verbo “irrompere” usa il teologo Karl Barth, promotore della cosiddetta “Kierkegaard renaissance”, uno dei pochi cristiani del dissenso, che, quando la chiesa luterana, alla quasi totale unanimità, si inginocchiò al cospetto di Hitler, definendolo “uomo inviato da Dio”, scelse la via dell’esilio volontario in Svizzera. Altri religiosi diedero il loro contributo al salvataggio di numerosi ebrei, non ultimo il Nunzio Apostolico a Budapest, mons. Angelo Rotta, il quale, oltre a coprire Giorgio Perlasca, fornì documenti per circa 19000 ebrei ungheresi, o le suore dell’Addolorata in via Faentina a Firenze o quelle di Nostra Signora di Sion o di Santa Brigida a Roma (e molti altri, “piccoli e grandi” casi citati nel volume “I Giusti d’Italia”, edito da Mondadori) o, ancora, la Basilica di San Bartolomeo all’Isola (sull’Isola Tiberina), dove furono nascosti circa 400 ebrei. Alcuni arrivarono pure all’estremo sacrificio, al martirio, come la filosofa carmelitana Edith Stein o padre Massimiliano Kolbe, il quale scelse di morire al posto di un padre di famiglia, auto-denunciandosi.

Numerosi impiegati d’anagrafe pure compirono azioni di fondamentale importanza (come il varesino Calogero Marrone, morto a Dachau), segretari comunali, ma anche umili contadini, gente qualunque, gli stessi insomma che avrebbero potuto, più agevolmente, scegliere di far parte di uno dei tanti Battaglioni 101. Anche l’Esercito Italiano, nei martoriati territori d’Istria e Dalmazia, aiutò a fuggire, in non pochi casi, ebrei dai territori limitrofi occupati dai tedeschi. Del resto la DELASEM, organizzazione fondata dall’avvocato ebreo genovese Valobra, fu stranamente autorizzata a continuare ad operare, dal Governo fascista, fino all’avvento della Repubblica di Salò (il periodo più buio, di retate, eccidi e deportazioni, nel quale persero la vita oltre seimila ebrei italiani). La DELASEM supportò la fuga in Svizzera e concesse aiuti umanitari a moltissimi ebrei italiani e stranieri, e continuò ad operare anche in clandestinità, grazie all’aiuto di numerosi non-ebrei (fra i quali il cardinal Boetto), e si poté pure avvalere della rapida bicicletta di Gino Bartali, nella cui canna, quest’ultimo, portava nascosti documenti falsi per fuggitivi ebrei, coprendo anche lunghe distanze. Lo stesso futurista e spudorato avanguardista Filippo Tommaso Marinetti, cadde infatti in disgrazia presso Mussolini, osò denunciare pubblicamente le Leggi razziali del ’38.

Mentre Heidegger, in Germania, in un disperato tentativo di “arianizzare” la cultura tedesca impregnata di cultura giudaica (che poi da vecchio definirà freddamente “sbaglio di gioventù”), di fatto abbruttendola, esautorava dall’Università il suo vecchio maestro Husserl e costringeva all’esilio l’amante Hannah Arendt, Karl Jaspers, suo ex compagno di studi, cristiano, rinunciava alla cattedra per rimanere con sua moglie, di origine ebraica.

Non mancarono neppure i capi di stato coraggiosi, infatti allo squallore del norvegese Quisling, rimasto proverbiale per la sua vigliaccheria, compensò il coraggio del cancelliere socialdemocratico austriaco Kurt Alois von Schuschnigg, il quale accettò di essere incarcerato, torturato, seviziato dalle SS e deportato a Dachau, dopo l’Anschluss, senza fuggire né arrendersi, rimanendo a difendere fino all’ultimo l’indipendenza, la legalità e la democrazia nel suo Paese. Il ministro antifascista bulgaro Nikolaj Petkov, invece, fu internato dai nazisti e poi condannato a morte dai “liberatori sovietici” nel ’47. Stessa posizione mantenne il più fortunato Feldmaresciallo finnico Carl Gustav Mannerheim, che con il suo piccolo esercito riuscì a proteggere la Finlandia dall’invasione sovietica prima, senza mai scendere a compromessi con Hitler (il quale implorava l’intervento finlandese a Leningrado), e poi scacciando le truppe tedesche dal suolo patrio nel novembre ’44.

Anche nello stesso Reich tedesco, la posizione di buona parte delle alte sfere militari fu sempre scettica, se non apertamente ostile, verso il nazismo. Von Hindemburg, eroico condottiero dell’esercito prussiano sul fonte orientale nella Prima Guerra Mondiale, in veste di Presidente della Repubblica, si rifiutò di affidare il cancellierato e la creazione di un governo a Hitler fino al ’32, quando ormai nazisti e comunisti di fatto controllavano il Reichstag e la situazione era diventata ingestibile. Probabilmente per senso democratico si rifiutò di sostenere il colpo di mano progettato dal generale von Schleicher (che sarà poi fra le vittime della “Notte dei lunghi coltelli” il 30 giugno 1934) vicino ai socialdemocratici. Lo stesso generale Groener, l’allora Ministro degli Interni, si era impegnato per arginare il nazismo mettendo al bando le SA, ma fu costretto a ritirarsi a vita privata. Von Lettow-Vorbeck, dal suo esilio volontario dalla vita pubblica, dopo la sua gloriosa missione in Tanganica durante la Grande Guerra, dichiarò più volte pubblicamente che l’adesione al nazismo gli era “anatomicamente” impossibile, ragionavano così anche von Rundstedt e molti altri. Il grande Ammiraglio Canaris, capo dello spionaggio tedesco (Abwehr), dopo aver assistito all’incendio della sinagoga di Bedzin e all’eccidio dei residenti ebrei della città, nel ’39, diventò informatore dei servizi segreti degli Alleati, organizzatore del colpo di stato contro Hitler e morì nel lager di Flossenburg nel ’45. Hitler fra l’altro non nutrì mai, consapevole delle antipatie che suscitava fra di loro, un gran rispetto nei confronti dei grandi generali del vecchio esercito prussiano. Nel ’38, ad esempio, costrinse von Fritsch e von Blomberg, riorganizzatori della Wehrmacht, alle dimissioni, a causa di loro giudizi contrari all’abolizione delle libertà civili, ufficialmente accusati dal cattolico Himmler, l’uno di omosessualità, l’altro di aver avuto rapporti con una prostituta. Nel 1944, Hitler, dà il definitivo colpo di grazia al suo esercito esautorando, a marzo, von Kleist e von Manstein (che gli erano ormai da tempo apertamente ostili), e, dopo l’attentato del 20 luglio (il decimo contro di lui), facendo, di fatto, sterminare senza pietà decine di ufficiali, del calibro di von Stauffenberg e Rommel, oltre a innumerevoli liberi professionisti, docenti, sindacalisti che avevano preso parte al progetto di sovvertimento del Terzo Reich.

I vertici dell’esercito polacco, pure, organizzarono un’importante rete internazionale di resistenza ai nazisti prima, e ai comunisti poi, come nel caso di Jan Karski e Witold Pilecki, organizzatore della resistenza nel lager di Auschwitz-Birkenau, poi fucilato a Varsavia nel ’48 dai comunisti.

Talvolta interi paesi scelsero all’unanimità di essere Giusti, come nel caso della Danimarca, dove il re Cristiano X salvò dalla deportazione l’intera popolazione di origine ebraica presente nel suo paese, che contava all’epoca poche migliaia di individui, grazie all’aiuto del suo popolo fiducioso, che senza mai piegarsi veramente all’invasore, continuò per tutta la durata dell’occupazione tedesca a portare un piccolo bottone quadrato con l’insegna del Re, a testimonianza del loro patriottismo e della loro silenziosa ma tenace resistenza al nazismo.

Giusto è quindi colui che fa una scelta che, per quanto minima, si rivelerà storicamente essenziale per la “sconfitta del Male”, colui che la compie, anche quando essa è la più improbabile, irrealizzabile, irrazionale di tutte, anche quando essa va contro i nostri principi, poiché difesa dei diritti umani significa pure diritto ad essere “diversi”, così come la libertà si può veramente affermare solo quando anche la libertà di “pensarla diversamente” viene garantita, come affermato da Voltaire, tre secoli fa, e da Rosa Luxemburg più recentemente.

Certamente non agì “razionalmente” Trockij, quando nel ’26 denunciò i crimini della polizia segreta russa, “molto simili a quelli nazisti”, pagando con l’esilio, questa ed alcune altre coraggiose affermazioni pubbliche, e infine con la morte, assassinato nel 1940. Non furono da meno i menscevichi Kamenev e Zinov’ev, quando nel ’17 decisero, per il bene comune (del resto il nuovo capo del governo Kerenskij avrebbe forse potuto democraticamente trasformare in stato socialista la neo-nata repubblica russa, senza ricorrere alla Rivoluzione bolscevica), denunciarono alla stampa i progetti segreti dei bolscevichi, invitando i cittadini a non prendere parte alle loro azioni violente e mettendosi quindi in una posizione di forte rischio di rappresaglia, nei loro confronti, da parte dei “compagni”. I due, dopo alterne vicende, saranno fra le prime vittime delle purghe staliniane del ’36. Simile sorte toccò a Varlam Salamov, autore dei “Racconti di Kolyma”, docente di Diritto Sovietico, aderì a un gruppo trotzkista universitario e nel ’29 rese pubblico un rapporto segretissimo, stilato da Lenin, sul conto di Stalin (il cosiddetto “Testamento di Lenin”). Venne arrestato e condannato ai lavori forzati fino al ’31, poi nuovamente dal ’37 al ’53, riabilitato solo nel ’56. Continuò fino alla morte (nel 1987) a far circolare clandestinamente all’estero suoi testi di denuncia contro il regime sovietico. Nel ’22 oltre 160 intellettuali non allineati, come il filosofo esistenzialista Nikolaj Berdjaev, spiriti liberi che mai avrebbero potuto rinunciare alla propria coscienza per il solo “vantaggio” dello Stato, vennero costretti all’esilio. Alcuni, come fra l’altro lo stesso Berdjaev, avevano un passato anti-zarista. Prima “blasfemi” poiché in disaccordo con il fanatismo religioso dell’epoca zarista, ora perché alieni alla neo-religione imposta dal comunismo sovietico. Andò peggio a molti altri perseguitati in seguito, fra i quali innumerevoli sacerdoti, come Pavel Florenskij, oramai finalmente riconosciuto come genio indiscusso del Novecento, internato nel primo gulag delle isole Solovki (nel Mar Bianco), nel ’33, e poi fucilato nel ’37, filosofo, matematico, fisico, fra l’altro padre di Kirill Florenskij, noto astronomo e geologo, cui dedicò innumerevoli lettere dal gulag. La sua storia fu scoperta e restituita al mondo solo nel 1991, all’apertura degli archivi del KGB.

Spesso la posizione delle stesse Democrazie Occidentali, che avrebbero dovuto ergersi a garanti dei diritti umani nel mondo, fu sovente imbarazzante nei confronti del Totalitarismo. Fu Jan Masaryk, che poi sarà vittima della terza defenestrazione di Praga nel ‘48 (figlio di Tomas Masaryk, fondatore della Cecoslovacchia repubblicana), nel ’38 ancora ambasciatore a Londra, a pronunciare la celebre frase: “Se avete sacrificato la mia patria per mantenere la pace nel mondo, sarò il primo ad applaudirvi. Ma se non raggiungerete lo scopo, signori, che Dio salvi le vostre anime!”. Lord Chamberlain e Lord Halifax, rispettivamente Primo Ministro e Ministro degli Esteri inglesi, gli avevano appena comunicato ufficialmente che il suo Paese non avrebbe partecipato alla Conferenza di Monaco, sede presso la quale si sarebbero discusse proprio le sorti cecoslovacche, ormai in balìa del Terzo Reich, che Gran Bretagna e Francia stavano ormai cercando di accontentare in tutto. Quando il diplomatico sovietico Viktor Kravchenko chiese asilo politico agli Stati Uniti nel ’43, iniziò a comporre le sue monumentali memorie, date alle stampe nel ’48: “Ho scelto la Libertà”. In esse denunciava la disastrosa politica economica della collettivizzazione forzata e della carestia programmata in Ucraina, denunciava lo sfruttamento massiccio del lavoro forzato imposto ai detenuti politici dei gulag e descriveva minuziosamente la paranoica burocrazia sovietica della quale aveva fatto parte, i suoi privilegi e le sue contraddizioni, ma sottolineava anche con puntualità il fatto che sostanzialmente gli stessi Stati Uniti avevano accolto di buon grado la deposizione dello zar in Russia, e conseguente instaurazione della Repubblica nel ’17, ma erano rimasti poi ciechi di fronte al nuovo “zarismo” imposto dal regime sovietico al popolo russo. Le denunce di Kravchenko suscitarono forte scalpore. La stampa comunista internazionale lo tacciò di essere un millantatore, particolarmente pesanti furono le accuse del settimanale del Partito Comunista Francese, “Les Lettres Françaises”, che Kravchenko querelò. Ebbe così luogo, nel ’49, il “processo del secolo”. Il regime sovietico mobilitò diversi ex colleghi dell’autore e la sua ex moglie, mentre egli si preoccupò di raccogliere rifugiati politici sopravissuti ai campi di prigionia sovietici, fra i quali la signora Neumann, vedova del fondatore del Partito Comunista Tedesco, che con la sua testimonianza precedette in qualche modo le tesi arendtiane, affermando la sostanziale inquietante somiglianza fra regime nazista e regime sovietico, storicamente confermata nel modo più evidente dal Patto Molotov-Ribbentrop del ’39.

Altra testimonianza fondamentale, a proposito della “burocrazia senza cuore che ostacola lo sviluppo della persona” e delle politiche repressive sovietiche, fu l’opera del saggista e giornalista polacco K. S. Karol: “Solik. Peripezie di un giovane polacco nella Russia in guerra”. Scappato in Russia dai nazisti e poi internato anch’egli nel gulag, dopo aver militato nell’Armata Rossa, egli racconta della madre socialdemocratica (dalla quale traggo la suddetta citazione sulla burocrazia sovietica), dei sentimenti dei polacchi e degli ucraini squarciati fra le brame naziste e quelle sovietiche. “A L’vov la gente spariva. Una repressione selettiva e sistematica che colpiva sia coloro che erano stati ricchi sia i militanti di sinistra. Il nuovo regime mostrava le unghie e i denti perché non trovava consenso da nessuna parte, non aveva “base sociale”. Gli ucraini e i bielorussi, perlopiù contadini che in teoria avrebbero dovuto bramare l’avvento della patria sovietica, non ardevano affatto per la collettivizzazione delle terre. Quanto alla popolazione polacca, ammesso che il partito comunista avesse potuto contare, Stalin l’aveva sciolto nel ’38, sterminandone i quadri in una di quelle notti sovietiche di San Bartolomeo, di cui neppure si conosce la data esatta”. Nell’Armata Rossa conoscerà la bella soldatessa Nievka, che poi dovrà abbandonare fuggendo dall’avanzata tedesca, una ragazza apparentemente forte e integrata nel sistema, ma in realtà fragile e dolce, deprivata dell’infanzia e della gioventù dalla Rivoluzione, che vuole che il suo tenero ragazzo polacco le racconti fiabe prima di addormentarsi. Si sposerà poi con la cosacca Klava, con lei vivrà in una casetta di poche decine di metri quadri, condivisa con i suoceri. Dovrà infine abbandonare tutti i suoi cari per fuggire nuovamente, questa volta proprio dalla Russia, e chiedere asilo politico in Francia.

Ecco chi è anche il Giusto: “Chi con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti”, questo fu il motivo pronunciato al conferimento del Premio Nobel ad un altro polacco: Czeslaw Milosz, nel 1980.

Si tratta dell’importanza di raccontare, tener vive le vittime e raccogliere le loro esperienze per donarle alla Storia e ai posteri, come si propongono di fare le monumentali opere storiografiche di Lanzmann, il film-documentario “Shoah”, e l’”Arcipelago Gulag” di Solzenicyn (cui qualcuno obiettò che la Storia “non ha bisogno di passato”! magari fosse vero!), oppure il signor Frank che trascorse i suoi anni a raccontare al mondo la triste vicenda di sua figlia Anna. L’importanza dell’essere testimoni, resistenti morali, anche qualora le circostanze ci abbiano allontanati forzosamente dalla Patria, dai nostri cari e ci costringano a tendere i palmi impotenti verso un luoghi lontani o verso il Cielo. Ma il Giusto è pure colui che si trova “invischiato” in qualche situazione in cui non dovrebbe trovarsi, o lontana dalla sua realtà, eppure sente ugualmente il dovere di testimoniare ciò che vede, per quanto non lo riguardi direttamente, come accadde nella Budapest in rivolta del ’56 a Indro Montanelli. Da quest’esperienza, fondamentale nella sua vita e nella sua attività giornalistica, trae uno sceneggiato e un testo storiografico: “La sublime pazzia della rivolta”, toccato dal gesto “folle” di migliaia di giovani magiari che si buttano contro i carri armati in moto, si lasciano arrestare, uccidere, seviziare e deportare come martiri, sconvolto dal senso di dovere del Capo del governo ungherese Imre Nagy, che, sebbene comunista sovietico, accetta il volere del suo popolo e per esso decide di andare incontro alla condanna a morte. Frattanto, in Italia, alcuni parlamentari comunisti plaudono all’arrivo dei carri russi nella capitale magiara ed altri ancora, alla luce di ciò, decidono di chiudere con l’avventura comunista, come Italo Calvino e Ignazio Silone, il quale addirittura definirà le parole di Togliatti: “di una volgarità e un’insolenza che la lingua italiana non aveva più conosciute dalla caduta del fascismo”.

Così come i modi di essere Giusti sono molteplici, pure le reazioni dei Giusti sono le più varie. Come già a suo tempo teorizzato dall’anarchico intellettuale piemontese Vittorio Alfieri, “irato a’ patrii numi”, non si possono trovare che tre soluzioni all’anelito verso la Libertà: tirannicidio, auto-esilio, suicidio. Il suicidio è l’atto attraverso il quale l’ideale viene sublimato, immortalato nella Storia puro e intatto, impresso nelle menti di chi ne è spettatore. Ne fu fulgido esempio Jan Palach, storico eroe della resistenza ceca, come reazione all’invasione sovietica successiva alla Primavera di Praga del ’68, il quale si diede fuoco in piazza san Venceslao, sull’esempio dei monaci buddhisti vietnamiti, nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969. Palach era uno studente di filosofia all’Università Carlo di Praga, dove insegnò pure il grande interprete del pensiero fenomenologico novecentesco Jan Patocka, altrimenti detto “Socrate praghese”. Portavoce prestigioso del movimento “Charta 77”, in prima linea con il futuro Presidente ceco Vaclav Havel e il drammaturgo Pavel Kohout (oltre ad altri 247 cittadini comuni, di varia estrazione sociale), Patocka, descriveva i firmatari della carta, come “unione aperta e informale di persone unite dalla volontà di perseguire individualmente e collettivamente il rispetto per i diritti umani e civili”. Un “documento abusivo e antistatale” per i sovietici, i cui firmatari vengono definiti “agenti dell’imperialismo” e immediatamente fermati e perseguitati. Patocka si consegnerà alle autorità come Socrate, subirà estenuanti interrogatori e morirà sotto le torture, dimostrando ancora una volta l’importanza dell’attività del vero intellettuale socratico, colui che provoca, sprona alla strada verso la Verità, dalla quale, una volta intrapresa, non si può più tornare indietro, e stimola il confronto con gli altri portando la società civile a fare le sue scelte responsabili, a riscoprire la propria Coscienza, colui che consapevole accetta di sacrificarsi per l’Umanità, senza per forza pretendere di poter dare l’esempio ed essere seguito, ma semplicemente per lasciare alla Storia il segreto del coraggio, l’eroismo di portare fino in fondo la propria “missione” di Giusto, anche lontano dai riflettori della cronaca. Del resto la voce dei Giusti è spesso, quasi sempre, inascoltata come la voce della Cassandra eschilea. Le profezie, che colpiscono la parte più profonda di noi, spesso infastidiscono, ci mettono paura. Rinunciamo ad ascoltare quegli appelli, poiché sovente è più comodo passare per scorciatoie, se non compiere la scelta sbagliata o addirittura non porsi neppure il problema (il che è evidentemente una forzatura, essendo la natura umana intrinsecamente “problematizzante”) e “tapparsi le orecchie”.

Come nessuno prestò orecchio all’appello disperato di Nagy e di tutti gli ungheresi alle Democrazie Occidentali, le quali, per tenere d’occhio i loro interessi nel Canale di Suez, fecero finta di rimanere sorde a quelle sincere preghiere. Così accadde il 13 agosto 1961, a Berlino, quando il sindaco dell’SPD, Willy Brandt (partigiano anti-nazista in Norvegia durante la guerra), assistendo impotente alla cortina che stava calando fra i suoi concittadini occidentali e quelli della parte orientale, chiese insistentemente al comando degli Alleati come intendesse intervenire, accogliendo per tutta risposta solo un imbarazzato silenzio. Pretendeva che almeno si mandassero pattuglie alle frontiere fra i settori, per rassicurare i berlinesi dell’ovest che non erano in pericolo. Niente. Brandt si troverà solo e abbandonato, in quei giorni di terrore, come spesso capita a chi sceglie di essere fra i Giusti: solo rimarrà accanto ai suoi concittadini delusi dall’Occidente e manderà un asciutto e puntuale messaggio di rimprovero al Presidente USA J. F. Kennedy, sottolineando che “la mancanza di iniziative e attività di difesa della popolazione inerme”, “l’inattività potrebbe portare ad una eccessiva sicurezza di sé da parte del regime di Berlino Est”. Si appella poi ai dirigenti, militari e funzionari della DDR: “Non lasciatevi trasformare in farabutti! Mostrate un atteggiamento umano, ovunque possibile, e soprattutto non sparate sui vostri connazionali!”. Tutto avverrà come da copione, non un ingranaggio dell’operazione volta a dividere parenti, amici, concittadini fra Est e Ovest, verrà meno. Da allora sulla frontiera si farà sul serio, si sparerà per uccidere, come nell’agosto 1962, quando due giovani muratori tentano la fuga. Uno dei due ce la fa, l’altro, Peter Fechter, appena diciottenne, no: colpito alla schiena e al ventre, rimane sdraiato sotto il muro dalla parte orientale per circa un’ora prima di morire. Le guardie della DDR non mostrano la minima intenzione di soccorrerlo, mentre quelle occidentali non possono raggiungere Fechter, che morente chiede un disperato aiuto, riescono solo a buttargli oltre la recinzione qualcosa per la prima medicazione. Nemmeno i soldati americani in servizio al vicino Checkpoint Charlie si azzardano ad entrare nel territorio di Berlino Est. I cittadini presenti assistono impotenti alla vicenda, insultando le guardie orientali e chiedendo, inascoltati, ai soldati americani di fare qualcosa. Nessuno compì la scelta giusta e Peter Fechter morì agonizzante.

Davanti a spettacoli del genere calza a pennello ciò che ebbe a dire il pittore ebreo tedesco Max Liebermann, assistendo dalla sua finestra, in Alexander Platz, ad una della prime adunate in pompa magna delle SA: “Non riuscirò mai a mangiare tanto quanto mi verrebbe da vomitare”.

Certamente Giusti lo si sceglie di essere senza doppi fini, senza ricompensa (perlomeno terrena), lontani dalle luci della ribalta. Si compie quella determinata scelta in quel determinato momento non per calcolo razionale, bensì accettando il sacrificio di una certezza, di un possesso, di una posizione felice, della vita stessa, razionalmente parlando è più ciò che si perde che ciò che si guadagna, poi la vita fa il suo corso. Scrisse Bohumil Hrabal: “Il mio amico Jarulinek (professor Jaroslav Kladiva), quello che ha condotto e tenuto il discorso funebre sulla bara di Palach, Jarulinek, per aver tenuto il discorso funebre su Palach, il cielo l’ha ripagato facendolo morire di cancro fra atroci agonie”, e ancora scrive: “se ne avessi la forza mi comprerei una tanica di benzina e mi darei fuoco anch’io, ma ho paura, non sono coraggioso”. Tanto coraggioso da non esserlo, B. Hrabal, acuto descrittore della politica anti-culturale e dis-educativa svolta dalla burocrazia sovietica nei Paesi dell’Est (“vidi come venne nel sole una maestra accompagnando un gruppo di scolari, vidi come la maestra prese un libro, richiamò l’attenzione dei bambini e poi mostrò il processo di strappamento in modo che i bambini lo comprendessero, e i bambini sì, uno dopo l’altro, prendevano un libro”, da “Una solitudine troppo rumorosa”), vissuto “sepolto vivo” per quasi sessant’anni della sua vita, a Praga, prima fuggendo dai nazisti e poi costretto a vivere nella clandestinità, come del resto le sue opere, condannato dalla censura comunista, impersonifica la precarietà del XX secolo. Costretto a sopravvivere di lavoretti di fortuna, i più improbabili, facendo il più delle volte la fame, fu tenuto in vita dalla scrittura, dai suoi personaggi surreali e dalle loro vicende rielaborate dalla lettura appassionata dei grandi Kafka e Hasek, nonché dalla vita quotidiana dei piccoli uomini praghesi qualunque, passati attraverso tutte le grandi miserie del Novecento senza che nessuno si sia accorto di loro. Il 3 febbraio 1997, cadde dalla finestra della camera d’ospedale ove era ricoverato, nutrendo dei colombi sul davanzale, ma per Susanna Roth non fu “un incidente occorso a un vecchio rimbambito”. Con Hrabal, saggio e appartato osservatore, a volte un po’ brillo, del Novecento e delle sue sciagure, tutto un secolo di calamità si butta dalla finestra e in un attimo soccombe. Di un altro “grande sommerso”, Bruno Schulz, Hrabal disse: “un patrono che custodiva l’intangibilità e il segreto dell’arte”. Se si cerca in una storia della letteratura, fra le più complete, vi si cercherà invano il nome di costui, eppure, Schulz, umile ebreo galiziano, autore di racconti, critico e grande disegnatore, ha lasciato davvero un segno indelebile nella letteratura e nell’arte europee. Ucciso in mezzo alla strada, nella sua cittadina di Drohobycz, nel ’42, da un SS, per saldare un contenzioso fra quest’ultimo ed un suo amico SS che si era preso il “prezioso” Schulz a casa per farsi ridipingere le decorazioni alle pareti.

S. Y. Agnon, un altro novelliere ebreo di origini galiziane, Premio Nobel per la Letteratura nel ’66, dedicò una delle sue novelle ad Azriel Moshe, personaggio folclorico ebraico, il quale, preso in giro dai suoi compagni poiché non sapeva nulla della Torah, umile e disperato implora Javè affinché gli insegni i nomi di tutti i profeti, poiché lui li vuole imprimere nella sua mente, uno ad uno, profondamente, non in superficie come i compagni che deridono la sua ignoranza. Così, compito di ogni uomo odierno non è tentare inutilmente di “fare la pace” con un recente passato troppo crudo per poter essere davvero “digerito”, bensì ricordare, riesumare, tenere a mente, imprimere a fuoco nella memoria, tutti i nomi dei nostri moderni profeti, ovunque la vita e la morte li abbiano condotti: i Giusti. Imparare da essi a non permettere la violenza su esseri umani innocenti, ad amare e difendere i nostri affetti più cari e i nostri valori liberali e democratici, il culto della pietas umana e del coraggio al servizio della Libertà, contro ogni rivendicazione del Totalitarismo ed ogni futuro pericolo di un suo ritorno, in qualsiasi parte del mondo attuale a noi strettamente coevo, come si potrebbe trarre spunto dall’attività svolta dal Console Onorario italiano, Pierantonio Costa, in Rwanda, nel 1994. Egli, con alle spalle una famiglia, riuscì a mettersi seriamente in gioco e salvare 2000 tutsi perseguitati dall’orrore di quei famigerati 100 giorni, a testimonianza del fatto che, se è vero che probabilmente la Storia non smetterà mai di fornire sciagure, è altrettanto fondato che non smetterà nemmeno di partorire Giusti, Eroi della Coscienza.

Scrisse Lev Trotsky poco prima di essere assassinato: “La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla di ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore”.

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Una volta, in un libro sulla guerra in Kosovo, ho letto queste parole: “nemmeno io ho mai capito le guerre, finché non ho avuto la mia”. Come osservò giustamente Seneca, molto prima, nel difendere il servus come essere umano, che quindi va trattato come tale, non è possibile rendersi conto della situazione altrui se in essa l’osservatore non prova ad immedesimarsi, se esso non si rende conto della precarietà della propria posizione più fortunata e che la propria storia può rivoltarsi da un momento all’altro e precipitare ai più infimi livelli. Quando sono stato in Argentina, ad esempio, oltre alle baracche marce e ai condomini fatiscenti dei quartieri più poveri e degradati, oltre agli indios e ai disoccupati accampati nelle piazze, oltre ai bambini e ragazzi di strada, agli abbandonati veteranos de las Malvinas (moltissimi morti suicidi in questi 25 anni trascorsi dalla fine della Guerra nelle Falkland), agli ormai celebri cartoneros, ho visto non pochi ex-medici, avvocati, liberi professionisti ridotti, dalla crisi, a barboni, fantasmi di sé stessi, dormire sulle panchine o dove capita.

Diritto fondamentale dell’uomo è creare, curare e conservare un proprio spazio, sicuro ed inviolabile, eredità della polis greca. Secondo Hannah Arendt, questo spazio, viene progressivamente perso dall’uomo comune nei totalitarismi e nelle moderne società di massa, dove una maggioranza sempre più compatta, univoca e uniforme, ha la meglio sulle menti indipendenti e sul libero pensiero, quest’ultimo, diritto irrinunciabile dell’uomo, garantito in una società “paritaria”, che non è lo stesso di ciò che, in realtà, ne rappresenta la deriva: la società “egualitaria”. Da ciò il sostanziale fallimento delle rivoluzioni Francese prima, e Russa poi, contro la sostanziale duratura vittoria di quella Americana.

Proprio come la nostra Repubblica Italiana, a quanto recita la Costituzione, tale spazio, vitale per l’uomo comune, si fonda essenzialmente sul lavoro, sulla possibilità quindi, propria della civiltà, di seguire le proprie personali inclinazioni, imparare un “mestiere” e praticarlo, mettendosi a disposizione della Società, dello Stato e soprattutto della propria famiglia. Da questa “forzatura” dell’umana natura, marxiana “alienazione”, scaturiscono tutti gli altri diritti: alla famiglia, all’oikos, al miglioramento di sé stessi, alla vita politica attiva, etc.

Tuttavia la Storia insegna che, nel ciclico avvicendarsi fra “sfruttatori e sfruttati”, che porta l’uomo qualunque ad una qual certa “patockiana problematicità”, ovvero, a interrogarsi su sé stesso, sul “senso”, nonché sull’assurdità, della propria esistenza e della Storia, il diritto al lavoro è spesso leso: negato o “forzato”. Basti pensare alle neppure troppo antiche servitù della gleba (specie nella Russia zarista) e manodopera schiavile, attraverso le quali si teneva a bada un popolo inerme, grossolano e ignorante, o, nel secondo caso, lo si riduceva in perpetua sudditanza incondizionata, alla stregua d’un comune “mezzo agricolo”, per dirla con Catone il Censore. Basti pensare all’incessante tratta di donne dall’Est Europa o dall’Africa sub-sahariana, allo sfruttamento massiccio di minori nel traffico della prostituzione in Cambogia, Vietnam e Thailandia, alle enormi difficoltà in cui hanno versato, e versano ancora, larghi strati della popolazione di colore statunitense, malgrado la speranza offerta al Mondo dall’elezione alla Casa Bianca di un uomo “di colore” appunto, difficoltà in cui ancora vivono i poveri sudafricani delle periferie di Johannesburg, nonostante il regime di apartheid sia caduto da ormai oltre quindici anni. Si pensi agli Ebrei nei lager, ove “il lavoro rendeva liberi”, ai “dissidenti” dell’area sovietica condotti, anch’essi a milioni, su vagoni piombati verso la Siberia, si pensi agli armeni deportati a inizio secolo, etc.

Dice Solzenicyn, in “Arcipelago Gulag”, che uno dei momenti più “belli” della sua vita fu quando dalla cella d’isolamento, in cui fu detenuto durante gli interrogatori, fu spostato in una cella fra altri prigionieri, altri esseri umani, nelle sue medesime condizioni, i quali gli fecero ricordare di essere “umano”. Il peggiore pericolo per i diritti umani è infatti l’indifferenza alla morte, alla vita, al sangue, alla sofferenza patita dall’umanità intorno, il dimenticarsi di essere umani. Più viene a mancare il diritto ad “essere umani” nel proprio “spazio”, più l’individuo si “disumanizza”, viene annullato, un automa in balìa dei suoi carnefici, come i prigionieri politici dell’ESMA, incappucciati in una nera soffitta, seviziati e percossi, avvolti in una tetra atmosfera, di grida indistinte di giovani donne torturate che davano alla luce orfani (i più ancora oggi cercati dalle Abuelas de Plaza de Mayo), prima di essere buttate dagli aerei in volo. Non solo, ciò che è peggio è proprio che, in tali condizioni, come analizzato anche dalla Arendt, l’uomo comune, privato di sé stesso, può, anzi talvolta deve, incalzato dagli eventi, diventare carnefice della sua immagine riflessa nei perseguitati: la “banalità del male”. Onesti impiegati, insospettabili dipendenti pubblici convertiti in spie, aguzzini, torturatori che trovano il modo di sfogare i più atavici e peggiori istinti umani, coi quali non abbiamo mai definitivamente cessato di fare i conti. Oppure prigionieri o soldati costretti al “bellum omnium contra omnes”, per dei vestiti (come in un racconto di Salamov), per un mestolo di pessima zuppa, per conquistare più spazio in una trincea o un posto riparato, per difendere degli effetti personali, per semplice “istinto di sopravvivenza”, che, talvolta, conduce ai suoi esiti più estremi, al cannibalismo.

Homo homini lupus”, afferma Plauto. La Storia conferma che tale aspetto è sempre in agguato, in ciascuno di noi: tutti, sembra affermare in ultima istanza, la Arendt, provocatoriamente, “potenziali Eichmann”.

Se è vero che è la lingua che parliamo la nostra vera patria, non la terra che abitiamo (dove possiamo essere stati deportati o costretti a immigrare), si pone, nel lungo elenco dei diritti umani e civili violati, quello all’autodeterminazione, nonché alla conservazione e tutela delle proprie radici e tradizioni: i Baschi, o i Rom sparsi per l’Europa, che con tenacia continuano, malgrado tutto, da secoli a parlare la loro lingua e conservare i propri irrinunciabili costumi, ne sono un esempio. Assimilabile a questi ultimi diritti citati è senz’altro quello, reclamato da molti e per i più inascoltato, alla conservazione dell’ambiente naturale dei luoghi ove interi popoli vivono da generazioni. Si pensi alla Nazione Navajo, ai Mapuche cileni (vergogna tutta italiana firmata Benetton), agli indios del Chapas, ai Boscimani del Kalahari (recentemente insigniti del prestigioso Premio Nobel Alternativo), agli Inuit, etc. Realtà geografiche diverse e lontane fra loro, minoranze linguistico-culturali unite dalla sottomissione a culture straniere e ostili.

Anche l’Italia fascista si è macchiata di crimini di prepotenza culturale nei confronti delle minoranze slave ed alto-atesine attraverso l’italianizzazione forzata di quelle genti (benché ciò non giustifichi affatto le barbarie inflitte nel dopoguerra agli italiani di Istria e Dalmazia).

Una delle pagine, a questo proposito, più vergognose, nella storia europea recente, riguarda senz’altro la vicenda nordirlandese, in quanto avvenuta nel cuore dell’Europa e più precisamente nella “culla” delle Democrazie Occidentali: il Regno Unito.

Nel non lontano 1971 un atto promulgato dal governo Thatcher, poi denunciato dalla Commissione Europea per i Diritti Umani, lo Special Powers Act, consentiva di fatto la tortura:

-esercizi fisici estenuanti,

-privazione sensoriale, ottenuta tenendo sempre incappucciata la persona, con conseguente difficoltà respiratoria,

-privazione del sonno,

-somministrazione di cibo e acqua in quantità esigue, ad intervalli irregolari,

-esposizione ad un forte e continuo rumore meccanico,

-essere spinti fuori da un elicottero della polizia, ad un metro e mezzo d’altezza, con gli occhi bendati, dopo essere stati convinti di volare sopra Belfast,

-percosse brutali,

-assalti di cani,

-essere costretti a camminare a piedi nudi sopra pezzi di vetro e sotto i colpi di manganello dei secondini,

-dover pulire con la lingua il secchio della cella che fungeva da WC,

-schiacciamento manuale dei testicoli,

-costrizione alla nudità.

Ritorna poi anche nella vicenda dell’Ulster il violato diritto al lavoro: cattolici discriminati e disoccupazione all’86%, negli stessi anni, nel quartiere cattolico di Ballymurphy a West Belfast. Cifra che scendeva al 20% per la popolazione protestante. Discriminazione che indi si ripercuoteva pure sull’assegnazione delle case.

Per rispondere, inoltre, alle continue intimidazioni, irruzioni nelle case, molestie, incendi, uccisioni settarie compiuti da gruppi estremisti protestanti (perpetrate più o meno ininterrottamente dal ‘700), il 30 gennaio 1972 (giorno passato alla storia con la canzone “Sunday Bloody Sunday”) 20.000 dimostranti cattolici disarmati scesero in piazza nella città di Derry. Un reggimento speciale inglese aprì il fuoco su di loro e morirono 14 persone inermi. Ciò decretò la fine del Civil Rights Movement (movimento che cercava, attraverso la lotta non violenta, di ottenere maggiori diritti civili per i cattolici), l’inasprirsi degli scontri e il progressivo aumento di aderenti, specie fra i giovani, alla Provisional IRA, l’ala armata dell’IRA, decisa a portare avanti con la forza la “lotta di liberazione”. Del resto la polizia era sostanzialmente tollerante nei confronti dei gruppi paramilitari lealisti, anche quando questi lanciavano pietre e bastonate su pacifici manifestanti contro il governo inglese, il quale, proprio a partire da quegli anni, impose il governo diretto da Londra, la detenzione preventiva di 72 ore senza necessità di mandato, perquisizioni a tappeto senza mandato, la censura della posta ai prigionieri (Bobby Sands, “Un giorno della mia vita”), abolizione del diritto al silenzio e alla privacy, tribunali speciali tenuti da un solo magistrato senza giuria e, di fatto, una legge marziale che ricordava i peggiori governi sudamericani del tempo.

Fino agli anni ’90, i soldati inglesi, unici in Europa, hanno potuto sparare sulla popolazione civile con proiettili di plastica di 10 cm che hanno causato la morte anche di diversi bambini.

Le umilianti perquisizioni ai posti di blocco, il filo spinato, soldati pesantemente armati a pattugliare giorno e notte: uno scenario da fantascienza continuato fino agli anni ’90, così descritto nei reportages di Silvia Calamati e in quelli dell’International Helsinki Federation for Human Rights. Fino al ’94, data del cessate il fuoco dell’IRA (unico caso al mondo nel quale è stata richiesta la deposizione delle armi ad una sola fra le parti al tavolo delle trattative), il Broadcasting Ban, non ha consentito una reale libertà d’informazione nel Regno Unito, non potendo essere pubblicate inchieste o saggi compromettenti sulle condizioni carcerarie, sulle azioni militari, sulle attività dei servizi segreti, né interviste al capo del Sin Fein nordirlandese Gerry Adams, né al deputato laburista, favorevole al ritiro militare dall’Ulster, Ken Livingstone. Censura denunciata a più riprese da numerosi e noti giornalisti inglesi.

Nel ventennio dei cosiddetti Troubles, sono morti oltre 1200 cattolici (dei quali oltre 900 civili, tanto che quasi ogni cattolico nordirlandese ha almeno un parente che è stato ferito, ucciso o arrestato in quegli anni), circa 600 protestanti (di cui quasi 200 terroristi unionisti) e più di 800 fra agenti di polizia e militari. Il governo inglese si è avvalso dell’MI5 per togliere di mezzo non pochi avversari dell’area nazionalista, come nel periodo coloniale, e del diritto a “sparare per uccidere” dei SAS (come accadde nell’88 a Gibilterra contro due nazionalisti disarmati sospettati di terrorismo). Le evidenti violazioni dei diritti umani, avvenute in quei vent’anni in Gran Bretagna, sono state frequentemente denunciate da tutte le commissioni per la tutela dei diritti chiamate in questione (fra le quali Amnesty), nonché da avvocati illustri e membri del clero, non ultimo Papa Giovanni Paolo II nella sua visita.

Oggi a Belfast non esistono più i “peacewalls”, però le scuole di gaelico sono ancora pochissime, i cattolici vivono ancora di fatto segregati nei loro vecchi quartieri-ghetto, divisi dalle zone protestanti, dove è ancora oggi difficile veder circolare un cattolico romano. Però sono tollerate le manifestazioni degli unionisti, i loro simboli, bandiere e murales che ritraggono tetri terroristi della UDA in passamontagna, mentre invece i simboli dell’IRA e del nazionalismo nord-irlandese repubblicano sono ancora fuori legge e malvisti. La diffidenza domina ancora i rapporti fra l’una e l’altra parte malgrado il nuovo governo di unione nazionale, fra repubblicani e lealisti, creato nel 2007, fornisca al mondo intero nuove speranze. È ancora calda, infatti, la ferita della tragica sorte di Bobby Sands, giovane leader dell’IRA, a quasi trent’anni dalla sua morte, accaduta nel 1981 (a 27 anni) a seguito del suo sciopero della fame, portato avanti fino alla fine per denunciare le condizioni di detenzione nel braccio del carcere di Long Kesh riservato ai dissidenti: “un carcere nel carcere”. Nelle sue memorie testimonia di sentirsi come “un detenuto di Dachau”, anche lui perseguitato per la sua appartenenza religiosa, razziale (in quanto irlandese) e politica, però, anziché nel Terzo Reich, egli si trovava nella “culla della democrazia”. Alla luce della sua testimonianza è impossibile che la mente non vada ai disumani metodi di detenzione applicati da alcuni militari americani ad Abu Ghraib, in Iraq, nei confronti, fra l’altro, di persone, nella maggior parte dei casi, in seguito rilasciate perché né complici né colpevoli di reati di terrorismo. Quasi alla stregua di quanto avviene quotidianamente in Cina, in Birmania o in Venezuela ai danni di oppositori politici, spesso cittadini innocenti e inoffensivi, frequentemente condannati a morte in assenza di prove.

Diritto al lavoro (retribuito, sicuro e non forzato), alla vita social-politica, ad un’informazione libera e completa, alla privacy, alla preservazione della propria lingua, all’autodeterminazione, ad un trattamento equo e non discriminatorio nei tribunali e nelle carceri, si può affermare, sono diritti umani fondamentali e inalienabili che una società, davvero civile, dovrebbe garantire per la costruzione e la preservazione di quello “spazio” di cui parla la Arendt.

Quando un uomo perde tutto ciò allora è concessa la morte? Di tirannicidi la Storia è piena, per cause fondate e non. Il tirannicidio, come “soluzione” definitiva, viene ripreso e trattato più volte da Seneca a San Tommaso a Vittorio Alfieri. Tuttavia, chi è sempre rimasta gigante nella Storia, è la figura tragica e mitica dell’Antigone sofoclea: icona del martirio di colui che consapevole va incontro alla morte per tutelare la sua umanità. “Per amare, non per odiare nacqui” risponde Antigone al tiranno che la rimprovera di aver seppellito il fratello traditore. Questo misero in atto Bobby Sands e altri nove suoi camerati dopo di lui, così come i ragazzi di Budapest ‘56 che si buttarono disarmati contro i carri sovietici, così come Jan Palach che si diede fuoco in Piazza Vinceslao nel ’68 a Praga e i monaci buddhisti vietnamiti prima di lui, così stanno facendo i dissidenti iraniani e quelli, pure poco seguiti dai media, zimbabwiani, e la lista di questi sacrifici (che nobilitano la bieca avventura storica dell’umana stirpe sulla terra e i suoi tragici bilanci) sarebbe ancora lunghissima. Siano stati piccoli o grandi, gli uomini sono destinati a lasciare un’anima alla Storia, ciò perché lasciano invece un nudo scheletro alla terra; non ultimo, infatti, viene il diritto alla memoria, che è collagene di un popolo, alla sepoltura, alla commemorazione. Chi rinuncia alla sua vita per il bene altrui, come il nostro Salvo D’Acquisto, compie un supremo sacrificio che deve rimanere monito per i posteri, ricordato con devozione. Ciò viene impedito dalla forza occupante ostile e per Jan Palach e Bobby Sands, ad esempio, poté avvenire solo parecchi anni dopo, per altri non avverrà mai. Così i desaparecidos, eroi o vittime innocenti, non rappresentano una realtà solo sudamericana, come suggerirebbe il termine, bensì un qualcosa di esteso a tutto il mondo e perpetratosi nei secoli: uomini scomparsi in fosse comuni privati del fondamentale diritto umano cui chiunque si appiglia in punto di morte, ovvero l’essere ricordati. Temi, tutti questi, ampiamente sviluppati nell’opera foscoliana, nei “Sepolcri”, in particolare, dove si ricorda la fine che fece la salma del milanese Parini, “avvocato” ante-litteram dei diritti umani e civili, persa fra le altre proprio in una fossa comune.

Il perdere diritto alla sepoltura, che ci riporta nuovamente all’Antigone sofoclea e alla profonda e sfaccettata sacralità del suo sacrificio (ella va incontro alla morte pur di posare sul fratello anche solo un pugno di terra), significa anche perdita del diritto all’identità. Persino sotto il dispotismo più atroce, infatti, ove l’individuo è costretto a una dimensione pressoché pre-istorica, alla perdita dell’individualità e alla rassegnata sottomissione al despota, ciò che ci rende umani è il possedere un nome, sapere chi era nostra madre, nostro padre, i nostri nonni, i nostri avi, eccetera, primo timido passo che l’uomo compie nel guadagnarsi uno spazio nella Società. La fossa comune, insieme allo stupro, è senz’altro una delle migliori armi in mano ai vincitori per annientare, ancor prima che fisicamente, psicologicamente e storicamente i vinti, come avvenne nella recente guerra in Bosnia, in Rwanda o come accadde agli italiani infoibati dai partigiani titini.

“Solo coloro che rispetteranno gli Dei dei vinti potranno governare”, scrive Eschilo nell’Agamennone. Forse si potrebbe dire che la Storia, così come la descrive Cioran, è un interminabile elenco di ascese incostanti e cadute prevedibili, proprio perché raramente i vincitori si sono sognati di mettere in pratica tale massima eschilea. Infatti cosa sono quegli “Dei”, se non l’inalienabile diritto a conservare la propria identità, diversa da tutte le altre e, proprio nella sua diversità, ricchezza di un Mondo, auspicabilmente, sempre più umano e civile?

Siamo fatti di carne ed ossa e abbiamo diritto d’essere trattati in quanto tali dai nostri governanti, in quanto “esseri affettivi e sentimentali” prima di tutto, per dirla con Unamuno, ed abbiamo il diritto, pertanto, di poter piangere i nostri morti, credere di occupare uno “spazio” nel Mondo, seppur misero e illusorio, e che qualcuno saprà ove piangerci una volta morti. Il concetto di identità è quanto ci fa credere ciò, ci fa sperare in una “eternità” e ci rende unici ed irripetibili, qualsiasi sia la nostra identità appunto.

Non meno efficaci delle fosse comuni furono, purtroppo, i forni di Auschwitz. Della stragrande maggioranza di quelle “persone nel vento” s’è persa infatti ogni traccia. Di tutti quei bimbi colà “passati per i camini” s’è perso tutto. Eppure ognuno di loro aveva un nome, come dice il titolo di un libro recentemente pubblicato per spiegare la Shoah ai bambini d’oggi. Di loro non sappiamo più a quali giochi giocavano, cosa sognavano, cosa amavano disegnare, qual’era il loro dolce preferito, il loro animale preferito, la loro fiaba preferita. Nulla è rimasto. Ecco dunque che alla luce di queste sconcertanti verità si potrebbe arrivare ad affermare che il diritto umano “più fondamentale”, su cui deve poggiare una società civile e sul quale hanno radici tutti gli altri diritti, è il diritto all’infanzia. Tematica che torna di forte attualità, benché apparentemente ignota ai più a causa della scandalosa indifferenza dei mass media. Bambini soldati costretti a bere il sangue dei genitori, a stuprare le sorelline, ragazzine vittime, in tutto il mondo, di stupri di gruppo “da party del sabato sera”, una esondante quantità di materiale pedopornografico in rete supportato da impuniti movimenti e giornate “d’orgoglio pedofilo”, bambini rapiti usati per estorcere denaro e per ricatti, bambini sfruttati nelle miniere così come nel traffico della prostituzione, vittime d’ogni genere di sevizie (come nella Cambogia raccontata da Marco Scarpati ne “Il rumore dell’erba che cresce”, dove quasi il 90% dei turisti, per lo più occidentali, trascorre infatti in quel paese non più di una notte) sono le amare realtà dei nostri tempi.

Ogni individuo ha diritto all’ingenuità e all’innocenza dell’infanzia per essere domani un Uomo, nel vero senso della parola, poiché, come sostiene il Piccolo Principe, tutti i grandi sono stati bambini in grado di cogliere l’essenziale con il cuore. Scrive Dostojevskij ne “I fratelli Karamazov”: “Qualche bello spirito, magari dirà che anche il bambino crescerà e avrà il tempo di peccare; ma lui, quel bambino di otto anni sbranato dai cani, non era ancora cresciuto”.

Francesco Bonicelli

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